Unità 13 - La responsabilità civile degli enti in sanità

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Corso: Diritto sanitario (Torino) - 9 CFU - 21/22
Libro: Unità 13 - La responsabilità civile degli enti in sanità
Stampato da: Utente ospite
Data: martedì, 6 maggio 2025, 15:26

Descrizione

La responsabilità civile degli enti in sanità

1. La responsabilità civile degli enti in sanità

La responsabilità in medicina non riguarda unicamente il rapporto tra l'operatore sanitario e il paziente (cfr. unità 11 -12) ma al contrario si inserisce nel più ampio quadro delle relazioni tra la struttura sanitaria, il paziente e l'operatore.
Come si è già visto, è la stessa Costituzione che pone l'obbligo di tutela della salute in capo a tutti gli enti costitutivi della Repubblica (art. 32 Cost.), fondandone la correlata responsabilità in caso di inadempimento.
In attuazione della previsione costituzionale, la disciplina di attuazione di rango legislativo e amministrativo pone l'obbligo di garantire l'esatto adempimento delle prestazioni sanitarie in capo agli organi del servizio sanitario, individuando i contenuti e i caratteri delle prestazioni oggetto dell'erogazione, che debbono essere garantite secondo standard di qualità predeterminati.

Allo stesso tempo l'articolarsi dei modelli organizzativi e gestionali delle strutture sanitarie e il progresso della medicina, unitamente allo sviluppo tecnologico, hanno reso sempre più necessaria una organizzazione della struttura capace di soddisfare i nuovi bisogni in sanità.
Il personale sanitario diventa quindi il collegamento tra paziente e struttura in grado di soddisfare l'interesse collettivo e il diritto fondamentale alla salute attraverso quella che viene definita "alleanza terapeutica".

L'attenzione si sposta dall'atto medico all'attività medica, valorizzando così l'attività dell'ente, la sua organizzazione e la garanzia delle prestazioni. Il singolo comportamento del professionista -  espressione della diligenza e della perizia individuale - si inquadra perciò nella attività della struttura (sul punto si veda R. De Matteis, Dall'atto medico all'attività sanitaria. Quali responsabilità?, in Il governo del Corpo, in Trattato di biodiritto, S. Rodotà-P.Zatti, Milano, Giuffrè 2011).

Superata la concezione originaria secondo la quale lo Stato non potrebbe commettere illeciti, nel periodo che va dall'unificazione d'Italia all'avvento della Costituzione della Repubblica Italiana, ha cominciato ad affermarsi la teoria della responsabilità degli enti pubblici secondo la quale le persone giuridiche, anche se fisicamente non presenti in natura, sarebbero capaci di agire sulla base di un principio di organizzazione, secondo cui le persone fisiche che operano all'interno dell'ente  coinciderebbero con l'ente stesso.
Con l'avvento della Costituzione Italiana si è affermata poi la responsabilità civile estesa allo Stato e agli enti pubblici per gli illeciti commessi da funzionari e dipendenti (art. 28 Cost.).
In disparte l'annosa questione del carattere diretto o indiretto di tale responsabilità, occorre in questa sede evidenziare che non ogni illecito della persona fisica comporta l'obbligo di risarcimento da parte di quella giuridica. Il fatto compiuto dall'agente, capace di ingenerare la responsabilità dell'ente, deve essere un fatto compiuto nell'esercizio dell'attività legata al rapporto di servizio, secondo quello che è indicato come "nesso di occasionalità necessaria", che sussiste ogni volta che l'attività posta in essere sia riconducibile alle finalità istituzionali dell'ente, secondo un'ampia valutazione che porta a escludere siffatto collegamento soltanto qualora l'attività sia assolutamente imprevedibile ed eterogenea rispetto a tali fini.
Il rapporto di occasionalità necessaria si pone dunque allo stesso tempo come presupposto e limite dell'obbligazione dell'ente, oltre che della correlata responsabilità amministrativa del dipendente invocabile innanzi alla Corte dei conti. 

Come si è già visto, oggi è espressamente prevista la responsabilità della struttura sanitaria pubblica (o privata) che si avvalga di esercenti la professione sanitaria "anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti dalla struttura stessa" (l. n. 24 del 2017, art. 7), accogliendosi un'ampia nozione di rapporto di servizio che coincide con lo stabile inserimento nell'organizzazione dell'ente. 

Nel caso di assolvimento dell'obbligazione risarcitoria da parte dell'ente pubblico, come anticipato (unità 11), l'operatore può essere chiamato a rispondere del danno indirettamente arrecato a quest'ultimo innanzi al giudice contabile, purché sussistano i presupposti di dolo o colpa grave.

E' l'atto di ammissione alla prestazione sanitaria a essere "costitutivo del diritto del soggetto al godimento della prestazione del pubblico servizio" e della correlata responsabilità dell'organizzazione in caso di inadempimento (sul punto si veda E. Casetta, La responsabilità degli ospedali e dei sanitari ospedalieri, in P. Bodda (a cura di), Gli ospedali e le farmacie, Vicenza, 1967, p. 36-49).

La struttura risponde dunque a titolo di responsabilità contrattuale (art. 1228 c.c.) per l'inadempimento di un'obbligazione che può essere ricondotta all'atto di ammissione precitato o, secondo altri, al c.d. "contratto di spedalità", un contratto atipico - cioè non disciplinato dalla legge - che è sottoscritto all'atto del ricovero e che ha ad oggetto non solo le prestazioni di diagnosi e cura, ma anche quelle accessorie normalmente dedotte nell'ambito del rapporto che si instaura con il paziente (anzitutto quelle alberghiere). Ciò anche ove le prestazioni siano svolte in regime di libera professione intramuraria (c.d. intramoenia), cioè dall'operatore a titolo privato, usando le strutture sanitarie pubbliche.

1.1. La responsabilità da prestazioni sanitarie transfusionali

In tema di prestazioni sanitarie trasfusionali - come peraltro per i vaccini - si è posta la questione dei caratteri dell'attività e di conseguenza della responsabilità dell'ente da un punto di vista attivo e omissivo. Diversi casi hanno interessato in particolare la responsabilità del Ministero della salute per i danni riportati da attività trasfusionale e da uso di emoderivati (cfr. Cass., S.U. 11 gennaio 2008, n. 576; Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 581; Cass, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1355). 

Di interesse è in particolare la connotazione in termini di pericolosità dell'attività di cui alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati.
Se la pericolosità della pratica suddetta - dalla quale il paziente potrebbe contrarre diverse patologie riportando così un danno alla salute - qualificasse in termini di "attività pericolosa" anche la correlata attività di vigilanza e controllo che il Ministero della salute è tenuto a operare, la responsabilità civile dell'ente andrebbe a qualificarsi in termini di "responsabilità da attività pericolose" (art. 2050 c.c.).
L'attività pericolosa che cagiona un danno comporta l'obbligo di risarcire lo stesso se l'ente non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitarlo (art. 2050 c.c.), conseguendone l'applicazione di una disciplina sull'onere probatorio e sulle regole di prescrizione che è analoga a quella sulla responsabilità contrattuale, e dunque di particolare favore per il paziente.
La questione è di particolare interesse se solo si considera che diverse patologie sono state riconosciute dalla scienza medica solo in un momento successivo alla pratica trasfusionale eseguita sui pazienti, o anche solo tenendo in considerazione come il rischio insito nella stessa trasfusione di sangue possa emergere in un momento successivo alla stessa, in ragione della limitata tipologia di controlli disponibili in una data epoca storica.
Per quanto attiene all'onere probatorio relativo al nesso causale tra condotta ed evento dannoso è stato chiarito che la qualifica di attività pericolosa di un'attività dipende dalla valutazione quantitativa del pericolo che la connota (notevole potenzialità dannosa: cfr. Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 582). Questa valutazione non assolve il danneggiato dalla prova del nesso causale tra l'attività e l'evento dannoso, quale ad esempio l'aver contratto una determinata patologia proprio in conseguenza della trasfusione.

Se la responsabilità della struttura sanitaria che deriva dall'eventuale mancato o errato controllo sulla trasfusione è ritenuta una responsabilità da attività pericolosa (art. 2050 c.c.) o di tipo contrattuale (art. 1218 c.c.), ciò non implica la medesima qualificazione per la responsabilità del Ministro della salute, a propria volta fondata sulla qualità dello stesso di organo apicale del SSN, perciò solo tenuto a esercitare una funzione di controllo e vigilanza su tutti gli organi ed enti che concorrono ad assicurare la tutela della salute.
La responsabilità del Ministro della salute per i danni contratti da pazienti emotrasfusioni a causa di omessa vigilanza sulle sostanze in oggetto è dunque ritenuta una responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c., sul punto cfr. Cass., S.U. 11 gennaio 2008, n. 576 e Cass., sez III, 23 gennaio 2014, n. 1355).

Occorre inoltre evidenziare come considerazioni di equità abbiano portato il legislatore ad intervenire prevedendo un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di farmaci (l. 25 febbraio 1992, n. 210), a prescindere dalla sussistenza degli elementi costitutivi del danno illecito e dunque di un'obbligazione di tipo risarcitorio.
Il ristoro economico dell'indennizzo si fonda sul sistema solidaristico costituzionale (art. 2, 32, e 38 Cost.) prevedendo una forma di ristoro sganciata da ogni accertamento del comportamento colposo del medico o della struttura, poiché l'indennizzo, a differenza del risarcimento, non presuppone un'attività illecita ed è corrisposto anche qualora l'evento dannoso sia del tutto imprevedibile e dunque non imputabile all'agente. La vittima può così cumulare l'indennizzo con l'eventuale risarcimento del danno, poiché i due rimedi non sono alternativi (Corte Cost., n. 423 del 2000).

1.2. Medicina difensiva e appropriatezza prescrittiva

Si registra un tendenziale aumento negli anni del contenzioso in sanità tanto da domandarsi quale sia l'equilibrio tra la richiesta della tutela risarcitoria del paziente e la sostenibilità di un sistema che vede crescere i costi correlati alla responsabilità in medicina.

L'aumento del contenzioso non pone solo problemi di sostenibilità dei costi da parte delle strutture sanitarie, ma anche quelli conseguenti al fenomeno della c.d. medicina difensiva, che, con la prescrizione di esami diagnostici evitabili, farmaci non necessari, o il ricovero per patologie trattabili in ambulatorio ammonta a un costo pari all'11,8% dell'intera spesa sanitaria (F. Toth, La sanità in Italia, Bologna, 2014, 10; in tema si vedano i risultati della ricerca condotta dal Ministero della Salute). Appare perciò evidentemente come sempre più necessaria una gestione del rischio clinico che passi per strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, quali ad esempio una decisa composizione stragiudiziale delle stesse.
Il legislatore ha, in un recente passato, tentato di imporre una riduzione forzosa dei costi della c.d. medicina difensiva stabilendo che un decreto ministeriale individuasse le "condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni" da parte dei medici del SSN (c.d. "decreto appropriatezza"). La medesima previsione stabiliva che, in caso di violazione di tali indicazioni, le prestazioni fossero a totale carico dell'assistito e al medico che le avesse prescritte fosse comminata una riduzione stipendiale. Nel caso si fosse previsto un ricovero non conforme ai criteri di appropriatezza, alla struttura sanitaria era erogata una tariffa decurtata del 50% dell'importo normalmente previsto (d.l. 19 giugno 2015, n. 78, art. 9 quater, conv. in l. 6 agosto 2015, n. 125).

Il giudice costituzionale ha tuttavia chiarito, con sentenza interpretativa di rigetto, che tali parametri debbono essere intesi come "mero invito" al medico prescrittore di rendere trasparente, ragionevole e informata lo scostamento dalle indicazioni del decreto ministeriale, senza che si possa in alcun modo superare la regola di fondo dell’autonomia e responsabilità del medico, atteso che le valutazioni di discrezionalità politica non possono in alcun caso prevalere su quelle espressione di conoscenza scientifica. Ove adeguatamente motivato, dunque, lo scostamento dalle indicazioni di cui al decreto ministeriale non comporta alcuna conseguenza (Corte cost., 12 luglio 2017, n. 169).