Unità 1 - La tutela della salute come diritto fondamentale
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Course: | Diritto sanitario (Torino) - 9 CFU - 21/22 |
Book: | Unità 1 - La tutela della salute come diritto fondamentale |
Printed by: | Utente ospite |
Date: | Saturday, 12 July 2025, 2:14 PM |
Description
1. La tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo
La Costituzione italiana (1948) definisce la tutela della salute come un diritto fondamentale dell'individuo e un interesse collettivo (art. 32 Cost.), secondo una previsione che innova significativamente rispetto all’ordinamento preesistente, ove la tutela della salute era un compito assunto dalle istituzioni pubbliche in una prospettiva essenzialmente di polizia igienico-sanitaria e profilassi internazionale, che ne valorizzava dunque esclusivamente la dimensione collettiva.In
particolare, non solo lo Statuto Albertino (1848) non menziona affatto
il diritto alla salute, ma la prospettazione di epoca liberale individua
nella tutela della salute una questione di mero ordine pubblico: così in
campo sanitario l’azione pubblica assolve essenzialmente funzioni di
tipo igienico sanitarie e le relative competenze sono attribuite al
Ministero dell’Interno (L. 20 marzo 1865, n. 2248, Allegato C)
Ricovero
e cura dei malati sono lasciati alla libera iniziativa di privati – in
particolare Opere pie – e intesi come espressione di “spirito
caritatevole”; l’intervento pubblico a carattere diretto e obbligatorio è
previsto solo nei confronti di indigenti e pazienti di particolari
patologie.
Nemmeno la
trasformazione delle Opere pie in Istituzioni pubbliche di beneficenza (I. P.A. B.) (l. 17 luglio 1890, n. 6972), determina l’affermazione di un
intervento statale in materia sanitaria inteso come esercizio di una
competenza pubblica, e ciò nonostante il crescente interesse dello Stato
liberale per l’intervento nel settore. Alle I.P.A.B. infatti è assegnato, tra le altre cose, il compito di "prestare assistenza ai poveri, tanto in
stato di sanità quanto di malattia", secondo una prospettiva che vi coglie ancora essenzialmente una questione di ordine pubblico.
E’
solo con l’affermazione dello "stato sociale" che l’assistenza sanitaria
collettiva si inserisce tra le competenze istituzionali della pubblica
amministrazione.
Nell’ordinamento costituzionale
il diritto alla salute, collocato all’interno del titolo dedicato ai
“rapporti etico-sociali”, si configura come diritto dell'individuo strumentale
allo sviluppo della personalità e all'affermazione del principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2 Cost.), oltreché come interesse della collettività.
Al diritto individuale alla salute sono riconducibili diverse accezioni: anzitutto esso va inteso come diritto all'integrità psicofisica, invocabile dall'individuo nei confronti di soggetti pubblici e privati. Tale interpretazione fonda il diritto a pretendere il risarcimento del danno nel caso di lesione del bene salute, ove il risarcimento dovuto ricomprende non soltanto le conseguenze patrimoniali dell'illecito (danno emergente e lucro cessante), ma anche il riconoscimento di un valore ex se al bene salute, risarcibile nella sua qualità di "danno biologico" (Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184 s.).
Secondo questa accezione, il diritto alla salute è invocabile nei confronti delle istituzioni della Repubblica, ma altresì pienamente tutelato nei rapporti interprivati, ove la sua violazione consente di invocare la responsabilità - contrattuale o extracontrattuale - dell'agente (Corte Cost. 26 luglio 1979, n. 88 e da ultimo Corte Cost. 10 giugno 2014, n. 162).
1.1. Il diritto alla salute come diritto alla cura
Nei confronti della Repubblica il diritto alla salute si specifica anche come pretesa giuridicamente tutelata avente ad oggetto prestazioni di cura, cioè come diritto di accesso alle cure (c.d. diritto sociale), cui corrisponde un obbligo di contenuto coincidente in capo alle istituzioni che compongono la Repubblica, e cioè dello Stato, delle Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni (art. 114 Cost.), che possono provvedervi direttamente o attraverso appositi enti strumentali (ad es. le Asl o le altre organizzazioni che compongono il Servizio sanitario nazionale).
La tutela del diritto fondamentale alla salute si esplica così attraverso l'erogazione delle prestazioni sanitarie da parte delle organizzazioni pubbliche, configurandosi come diritto all’ottenimento di prestazioni di cura a carico della Repubblica e, per essa, del Servizio Sanitario Nazionale.
A tale diritto corrisponde un obbligo di assicurarne l'effettività invocabile nei confronti delle istituzioni repubblicane, cui spesso si è tentato di apporre un limite invocando il condizionamento finanziario, secondo l'argomento dei "diritti finanziariamente condizionati" che è stato usato per giustificare una tutela diminuita dei diritti a prestazione. A ben vedere, tuttavia, a tutti i diritti è riconducibile un "costo", ivi compresi quelli espressione della cultura giuridica liberale delle costituzioni e dichiarazioni dei diritti borghesi di fine '700. In altre parole, anche le più classiche libertà negative, quali il diritto di iniziativa economica e la proprietà, richiedono per la propria effettività la predisposizione e il funzionamento di garanzie (in primis la tutela giurisdizionale e il sistema di giustizia) che sono finanziate con risorse attinte alla fiscalità generale, e che dunque hanno un costo.
Sulla scorta di tali ragionamenti, la giurisprudenza più recente è pervenuta ad affermare l'incomprimibilità del nucleo essenziale dei diritti a prestazione, escludendo che esso trovi un limite nelle esigenze di contenimento della finanza pubblica. Ciò vale a dire che gli enti del Servizio sanitario non possono sottrarsi all'obbligo di garantire il nucleo essenziale del diritto alla salute invocando meramente le ristrettezze finanziarie, ma dovranno, al contrario, individuare le risorse necessarie ed elaborare ogni possibile soluzione organizzativa utile a tal fine (Cons. St., sez. III, 2 gennaio 2020, n. 1).
Benché il nostro sistema sia ispirato al c.d. principio universalistico (tutti accedono alle prestazioni sanitarie alle medesime condizioni, a prescindere dalle condizioni individuali), secondo il dettato costituzionale la gratuità delle prestazioni è condizionata tuttavia dalla sussistenza di una condizione di indigenza dell’individuo (art. 32, co. 1º Cost.).
Tale limite è superato solo con la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (l. 23 dicembre 1978, n, 833, art. 1) che consacra il richiamato principio universalistico, secondo cui l'accesso alle prestazioni sanitarie è assicurato a tutti gli iscritti al sistema sanitario (che siano cittadini o meno) alle medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sulle condizioni personali e sociali.
La tutela della salute si riferisce a tutti gli individui e non ai soli cittadini. Essa prescinde dunque dallo status di cittadinanza ed è assicurata nel suo nucleo essenziale (trattamenti indifferibili e urgenti) a chiunque, anche ove irregolarmente presente sul territorio nazionale. Lo status più rilevante ai fini dell'accesso alle prestazioni sanitarie nel nostro ordinamento è la residenza, che determina l'iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale. |
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Focus: All’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, la portata innovativa del testo relativo al diritto alla salute sembrò ridimensionarsi con la distinzione tra norme programmatiche e norme precettive. A differenza di queste ultime, le norme programmatiche non avrebbero un’immediata capacità di fondare situazioni soggettive immediatamente tutelabili, ma individuerebbero esclusivamente un vincolo per il legislatore, tenuto all’attuazione del disposto costituzionale. Sin dalle sue prime pronunce, tuttavia, la Corte costituzionale escluse la fondatezza di una tale ricostruzione, evidenziando la pari dignità delle norme costituzionali che impone di ricondurre a tutte la medesima portata precettiva (cfr. Corte Cost., 20 dicembre 1996, n. 399). |
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* Su Organizzazioni pubbliche e diritti fondamentali si rimanda al seminario svoltosi presso l'Università di Torino il 4 dicembre 2014: scarica il video
1.2. Il diritto alla salute come "libertà di curarsi" e "di non curarsi"
Il disposto costituzionale stabilisce allo stesso tempo il principio di volontarietà nell'accesso alle cure, là ove, al comma 2° dell'art. 32, si stabilisce che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", secondo un disposto che consente di limitare il diritto all'autodeterminazione individuale esclusivamente per ragioni d’interesse collettivo, purché vi sia un’espressa previsione di legge (riserva di legge) e non siano comunque superati i limiti imposti dal rispetto della persona umana, cioè nel rispetto della dignità dell'individuo (cfr. Corte Cost., 26 giugno 2002, n. 282). La riserva di legge in tema di trattamenti sanitari obbligatori è di tipo relativo e determina l’illegittimità di qualsiasi intervento pubblico in materia privo di fondamento legislativo (sulla riserva di legge e i trattamenti sanitari obbligatori cfr. unità 2).
A tale previsione si correla sia la disciplina sui c.d. trattamenti sanitari obbligatori, sia l’obbligo di acquisire il consenso informato del singolo per qualsiasi intervento terapeutico (cfr. unità 13 seg.), secondo un principio che dà attuazione anche alla libertà personale (art. 13 Cost.) e al principio personalistico (art. 2 Cost.).
Si esclude pertanto in capo al singolo un “dovere di curarsi” (cfr. Cass. civ., 15 settembre 2008, n. 23676), salvo appunto il caso dei trattamenti sanitari obbligatori imposti per legge, mentre gli si riconosce il "diritto di non curarsi".
Ciò alla luce della nozione di salute fatta propria dall'Organizzazione Mondiale della Sanità sin dalla sua carta istitutiva (1948), ove la stessa è intesa come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia, secondo un'accezione che correla la salute al diritto all'autodeterminazione individuale che della prima diviene elemento costitutivo. La salute intesa come benessere psichico comprende pertanto anche la possibilità di scegliere le cure cui sottoporsi, eventualmente rifiutando quelle in contrasto con la propria visione religiosa o filosofica, e ciò anche ove il rifiuto comporti la morte, purché tuttavia esso sia "espresso, inequivoco ed attuale" (si pensi ad es. al rifiuto delle emotrasfusioni opposto dai Testimoni di Geova, su cui si veda Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2007, n. 4211, di rigetto della domanda risarcitoria presentata da un testimone di Geova sottoposto a trasfusione contro la sua volontà in ragione della non attualità di un dissenso manifestato in assenza di pericolo di vita del paziente).
Ogni persona ha dunque il diritto di rifiutare o interrompere qualunque trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, ivi compresi i trattamenti di ventilazione, idratazione e nutrizione artificiale, e ciò anche ove tale interruzione comporti una condotta attiva da parte di terzi (quale il distacco o la spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda o di una terapia del dolore, cfr. l. 22 dicembre 2017, n. 219, art. 1). A fronte della somministrazione di tali terapie (o della non somministrazione di esse, ove ciò corrisponda alla scelta del paziente), anche ove ne derivi la morte del paziente, il medico va esente da responsabilità civile e penale, fermo restando che il paziente non può esigere trattamenti contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali: in tale caso il medico non ha obblighi professionali nei confronti del paziente (ad es. nel caso di consenso prestato a un intervento chirurgico che comporti rischi emorragici con l'inequivoca manifestazione di dissenso alla trasfusione: Cass. civ., sez. III, 23 dicembre 2020, n. 29469).
La libertà di cura comprende altresì il diritto ad essere assistiti nella somministrazione di terapie finalizzate a essere liberati dalla sofferenza, che vadano oltre le cure palliative e pongano fine alla vita, specie ove non vi si possa provvedere autonomamente in ragione delle condizioni in cui ci si trova, a pena di violazione della dignità umana. Diritto pienamente invocabile nei confronti delle istituzioni della Repubblica, che non possono sottrarsi al relativo adempimento né adducendo la non riconducibilità di tali prestazioni - finalizzate in definiva all'accompagnamento verso la morte - alla tutela della salute, né invocare un preteso diritto all'obiezione di coscienza per ragioni religiose o filosofiche. L'obiezione di coscienza infatti è una manifestazione della libertà di manifestazione del pensiero che è invocabile dal singolo e mai dalle istituzioni in quanto tali, che dunque non possono liberarsi dagli obblighi di servizio pubblico adducendo di disporre esclusivamente di soli medici obiettori, ma dovranno al contrario utilizzare ogni accorgimento possibile - ivi comprese assunzioni riservate a non obiettori - per adempiere gli obblighi loro imposti dall'ordinamento.
Consegue inoltre dal riconoscimento della libertà di cura, così come affermato dalla Corte costituzionale, la non punibilità dell'assistenza al suicidio (art. 580 c.p.), purché il relativo proposito si sia formato autonomamente e liberamente e riguardi una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e sempre che tali condizioni siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente (Corte cost., 25 settembre 2019, n. 242).
Tali approdi sono l'esito di peculiari vicende di cronaca, che hanno dato origine ad una serie di pronunce giurisprudenziali particolarmente significative.
Sulla depenalizzazione dell'assistenza al suicidio il rinvio è al c.d. "caso Cappato": per una sintesi si veda la scheda dell'Associazione Luca Coscioni.
Per il riconoscimento del diritto alla salute come libertà di non curarsi, con condanna dell'amministrazione all'interruzione del trattamento di nutrizione artificiale, si veda la sentenza della Cassazione relativa al "caso Englaro": cfr. Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748