Unità didattica I - La condizione giuridica dello straniero

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Corso: Diritto dell'immigrazione - 6/9 CFU - TORINO - 22/23
Libro: Unità didattica I - La condizione giuridica dello straniero
Stampato da: Utente ospite
Data: lunedì, 6 gennaio 2025, 14:06

Descrizione


Il diritto dell'immigrazione è disciplinato da fonti di più ordinamenti: nazionale, europeo ed internazionale, riconducibili a più settori del diritto (civile, penale, amministrativo) che conducono all'individuazione di un quadro giuridico multiforme.


Più in generale, volendo tentare una definizione unitaria il "diritto dell'immigrazione” può dirsi comprendere il complesso di norme atte a disciplinare un insieme di persone accomunate da una unica qualificazione: quella di straniero.

I.1. Una possibile nozione di straniero

Comunemente è straniero il "non cittadino”, cioè colui il quale pur trovandosi sul territorio di uno Stato non ne possiede la cittadinanza.
Anzitutto, ove si assuma l'Italia come Stato ospite (cioè come Stato diverso da quello di cui si ha la cittadinanza: v. UD 4), sono stranieri: 
  • i cittadini europei non italiani;
  • i cittadini extraeuropei;
  • gli apolidi;
  • i rifugiati o profughi o sfollati e i richiedenti asilo, in ogni caso coloro i quali godono di una protezione internazionale o comunque di un'altra forma di protezione speciale (si veda UD 4).
Lo straniero può, peraltro, assumere posizioni soggettive differenziate e specifiche, ognuna delle quali è disciplinata da un corpus di norme differenti, cioè da un insieme di poteri, diritti, obblighi e facoltà.
Conseguenza di tale distinzione non è solo il diverso quadro giuridico di riferimento, ma, come si vedrà, anche la diversa posizione soggettiva rispetto al godimento di determinati diritti.
Secondo il Consiglio d'Europa sono stranieri tutti coloro che "have no actual right to nationality in a State whether they are merely passing through a country or reside or are domiciled in it, whether they are refugees or entered the country on their own initiative, or whether they are stateless or possess another nationality” (1962).

In termini negativi si esprime l'art. 1 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen, ove si definisce straniero colui il quale non possiede la cittadinanza di un Paese membro delle (allora) Comunità Europea, quindi, il "non - europeo”.
Allo stesso modo, anche il legislatore italiano ha ritenuto di ricorrere a una definizione negativa, indicando come stranieri coloro i quali non sono cittadini di Stati appartenenti all'Unione europea ovvero coloro ai quali è stato loro riconosciuto lo status di apolide (art. 1 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, cd. Testo Unico Immigrazione).
Così definito lo straniero occorre soffermarsi sulla relativa condizione giuridica.




I.2. La disciplina dell'immigrazione tra istanze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali

Anzitutto appare utile premettere come la disciplina del diritto dell'immigrazione sia normalmente caratterizzata da una continua tensione tra istanze divergenti: l'affermazione della sovranità territoriale dello Stato, da un lato, e la tutela dei diritti fondamentali, dall'altro.
La prima si esplica nella facoltà esclusiva di proteggere le proprie frontiere attraverso la regolamentazione dei flussi migratori. In tal senso la disciplina dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato si configura quale mezzo, fortemente discrezionale, di difesa dell'integrità nazionale.
La seconda, atteso che la disciplina dello straniero è finalizzata alla regolamentazione dello status dei singoli individui, pone in evidenza l'esigenza del rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo, ove al centro del sistema normativo è posta la persona come singolo e nelle sue formazioni sociali in cui si estrinseca la sua personalità.
Con riguardo all'ordinamento italiano, tale caratterizzazione non deriva soltanto dalla sottoscrizione da parte dell'Italia di trattati internazionali vincolanti in materia, ma prima ancora dal dettato costituzionale circa la condizione giuridica dello straniero che, come si vedrà, anticipa tale ultima impostazione
I due elementi, il primo espressione della sovranità dello Stato e della volontà dello stesso di tutelare l'integrità dei propri confini e del proprio potere sovrano, repressiva e derogatoria, il secondo teso all'effettività dei diritti fondamentali, intesi come diritti civili, sociali, personali e familiari, convivono in continua tensione all'interno del nostro ordinamento dando vita ad una condizione soggettiva dello straniero caratterizzata da una rilevante precarietà.
La disciplina dell'ingresso e del soggiorno dello straniero sul Territorio Nazionale, così come il suo allontanamento, altro non è che la traduzione in termini di diritti e doveri, facoltà e divieti, di tale contrasto dialettico tra principi opposti.
Un valido esempio della contrapposizione tra la volontà dello Stato di preservare la propria sovranità e l'obbligo di tutelare i diritti fondamentali della persona può ritrovarsi nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, chiamata più volte a pronunciarsi circa la conformità al testo della Convenzione europea per i diritti e le libertà fondamentali dell'uomo (CEDU) e della disciplina degli Stati aderenti in materia di immigrazione. La Corte, nel pronunciarsi sui limiti dell'ingerenza di uno Stato sulla condizione personale dello straniero per la verifica della sussistenza di eventuali profili di violazione dei diritti riconosciuti dalla CEDU, ha sempre assunto la piena e completa autonomia statuale circa la disciplina dell'ingresso e del soggiorno dello straniero proprio come affermazione della sovranità nazionale (Corte Edu, 18 febbraio 1991, app. n. 12313/86, Moustaquim v. Belgium nella quale si afferma che "§ 43 The Court does not in any way underestimate the Contracting States' concern to maintain public order, in particular in exercising their right, as a matter of well-established international law and subject to their treaty obligations, to control the entry, residence and expulsion of aliens”.).
La stessa tensione dicotomica può essere ritrovata nella disciplina europea in materia, ove, a fronte della competenza concorrente degli Stati in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, la tutela dei diritti fondamentali dell'uomo è uno dei principali obiettivi dell'Unione europea, alla cui realizzazione è teso lo sforzo normativo di tutte le sue istituzioni (art. 2 e 3 del Trattato dell'Unione europea). Così la tutela del diritto all'unità familiare e il rispetto della dignità della persona sono elementi ispiratori di direttive europee che hanno inciso sulle discipline nazionali (v. Direttiva 2008\115\CE in tema di rimpatrio di cittadini di Paesi terzi UD 14 e la Direttiva 2003\86\CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare UD 5)
Del pari, infine, può dirsi con riguardo alla legislazione italiana.


Approfondimento 1 - Il Consiglio d'Europa e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo


I.3. La disciplina dello straniero nell'epoca post unitaria

Negli Stati preunitari, la condizione giuridica dello straniero era disciplinata comunemente attraverso il ricorso alla c.d. clausola di reciprocità: lo straniero era ammesso al godimento dei diritti civili solo se il suo Paese di origine ne accordava il pari godimento al cittadino italiano.
Al momento dell'adozione del codice civile post unitario del 1865, il pensiero liberale giunto alla sua massima espansione, sia a livello politico che a livello economico - commerciale, si tradusse per quanto d'interesse nel tentativo di realizzare in modo concreto i principi di uguaglianza e solidarietà tra i popoli e le nazioni.
E' alla luce di tale quadro politico che si colloca la redazione dell'art. 3 del codice civile del 1865, che prevedeva la piena parificazione nel godimento dei diritti civili gli stranieri con i cittadini del neonato Stato italiano, scelta tesa ad amplificare il ruolo dell'Italia all'estero, non solo da un punto di vista politico, ma anche economico e commerciale, e dunque a favorire il godimento dei diritti civili da parte del cittadino italiano presente in uno stato terzo.
Un più agevole riconoscimento dei diritti civili in capo agli stranieri avrebbe, infatti, incentivato gli scambi commerciali e i trasferimenti di capitali sul territorio nazionale.
Per convesso, ove uno Stato straniero avesse applicato nei confronti del cittadino italiano presente sul proprio territorio la condizione di reciprocità, quest'ultimo non avrebbe avuto alcun problema a dimostrare la pari fruizione del medesimo diritto da parte dello straniero in Italia.
Tali assunti non trovarono, tuttavia, riscontro sul piano pratico. In particolare, fu rilevato come la scelta di tale regime interno avesse posto in una situazione di grave inferiorità i cittadini italiani all'estero. Nonostante, infatti, l'Italia avesse optato per la parità di trattamento nel godimento dei diritti civili tra i cittadini italiani e gli stranieri, gli altri Stati non solo avevano continuato a disciplinare la condizione giuridica degli stranieri attraverso il principio della reciprocità, ma avevano adottato, nella legislazione economica e civile, forme di protezionismo in favore dei propri cittadini sempre maggiori, a fronte delle quali l'Italia non aveva alcuno strumento di difesa. Tali considerazioni ben si comprendono se lette alla luce dei significativi mutamenti storici, politici ed economici verificatisi negli ottant'anni di vigenza dell'art. 3 del codice civile 1865, come il rafforzamento della politica di colonialismo e la nascita di nuovi nazionalismi, la nota crisi economica e finanziaria dei primi del Novecento e la crescente rivalità tra gli Stati europei, poi sfociata nei due conflitti mondiali. Alla luce di tali considerazioni, i redattori del nuovo codice civile del 1942, con l'adozione dell'art. 16 delle Disposizioni preliminari al Codice Civile (cd Preleggi) decisero di tornare a disciplinare la condizione giuridica dello straniero attraverso il principio di reciprocità, perseguendo, quale fine ultimo, la tutela degli interessi e dei diritti dei propri cittadini.


Per saperne di più C. STORTI STORCHI, Il ritorno alla reciprocità di trattamento. Profili storici dell'art. 16 Disp. Prel. Al Codice Civile del 1945, in I cinquant'anni del Codice Civile. Atti del Convegno di Milano 4-6 giugno 1992, Giuffrè, pp. 500-557

I.4. La condizione di reciprocità

Il principio di reciprocità prevede che lo straniero sia ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino solo nel caso in cui il godimento del medesimo diritto sia garantito al cittadino italiano nel Paese di origine dello straniero.
In generale, il principio di reciprocità si distingue in tre distinte tipologie: diplomatico, legislativo o c.d. di fatto. Nel primo caso la regolamentazione del trattamento dello straniero è demandata a un trattato internazionale stipulato tra l'Italia e lo Stato estero, mentre nel secondo caso, ai fini dell'applicazione della condizione in esame, si deve procedere ad una verifica della normativa estera per accertare l'esistenza di una disciplina analoga a quella prevista dalla legislazione italiana in un dato settore.
Infine, si ha reciprocità di fatto quando la verifica di cui sopra ha per oggetto la ricerca di prassi, consuetudini e giurisprudenza che possano dimostrare l'analogia tra il trattamento riservato al cittadino straniero in Italia e dell'italiano all'estero.
Inoltre, ai fini dell'applicazione della condizione di reciprocità, la comparazione tra la legislazione nazionale e quella estera può limitarsi all'individuazione di una mera somiglianza tra le normative (c.d. generica), oppure porre in essere un raffronto globale dei due ordinamenti (c.d. generica in senso lato) ovvero pretendere una ricerca puntuale e precisa di uguaglianza nella normativa estera (cd punto per punto).
L'art. 16 delle Preleggi disciplina una condizione di reciprocità c.d. di fatto e richiede che sia posta in essere una comparazione di tipo generico tra le legislazioni.
Ai fini della determinazione della sussistenza della condizione di reciprocità non pare sia necessario che la corrispondenza tra gli ordinamenti sia puntuale e precisa, ma risulta sufficiente l'accertamento del riconoscimento del diritto di cui si tratta, non rilevando in tal caso la eventuale differenza di attuazione del diritto stesso. Occorre, infine, evidenziare che l'onere della prova circa l'accertamento della reciprocità tra l'Italia ed il Paese estero grava sullo straniero che intende giovarsi della condizione: non trattandosi della individuazione della legge da applicarsi nel caso concreto, ma piuttosto della determinazione del trattamento spettante al cittadino italiano nel Paese straniero, non può, in tal caso, trovare applicazione il principio juris novit curia.
Per poter correttamente circoscrivere l'odierno ambito di applicazione del principio di reciprocità con riferimento alla condizione dello straniero, occorre analizzare il rapporto che intercorre tra l'art. 16 delle Preleggi, entrato in vigore nel 1942 insieme al testo del Codice Civile, ed il dettato della Carta Costituzionale, redatto in epoca successiva.
Sebbene non sia mai stato dichiarato un pieno contrasto tra il principio in esame e le disposizioni costituzionali, sin dall'entrata in vigore della Costituzione, si è affermata una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 16 delle Preleggi che ne ha fortemente limitato l'ambito di applicazione.
In primo luogo, non è subordinato alla verifica della condizione di reciprocità il godimento di tutti i diritti inviolabili di cui all'art. 2 Cost., che deve essere garantito a tutti gli individui, indipendentemente dal loro status e prescindendo da eventuali trattamenti contrari riservati ai cittadini italiani nei Paesi di origine degli stranieri presenti in Italia.
Inoltre, l'esistenza della condizione di reciprocità nel nostro ordinamento ha sempre rappresentato un concreto ostacolo per gli stranieri, anche se regolarmente residenti sul territorio nazionale, all'accesso alle professioni, all'imprenditoria e al lavoro autonomo, ponendosi in contrasto con le politiche di integrazione poste in essere in favore dei migranti. L'entrata in vigore del Testo Unico Immigrazione ha tentato di porre rimedio a tale situazione.
L'art. 2 del Testo Unico Immigrazione, infatti, oltre a ribadire il pieno riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo a tutti gli stranieri, indipendentemente dal loro status e dalla regolarità o meno dell'ingresso o del soggiorno sul territorio nazionale, al suo secondo comma, equipara lo straniero regolarmente soggiornante in Italia al cittadino italiano ai fini del godimento dei diritti civili, salvi i casi in cui la legge ovvero le convenzioni internazionali dispongano diversamente.
A ciò si aggiunga che, qualora lo stesso Testo unico ovvero le convenzioni internazionali facciano riferimento alla condizione di reciprocità, il suo accertamento è demandato ai criteri ed alle modalità previsti dal D.P.R. del 31 agosto 1999 n. 394, regolamento recante le norme di attuazione del T.U. Immigrazione, ove l'accertamento di tale condizione è di competenza del Ministero degli affari esteri (D.P.R. n. 394 del 1999, cit. art. 1, co. 1). Tuttavia, dal tenore del secondo comma della norma in esame si evince che la condizione di reciprocità nel godimento dei diritti civili trova applicazione solo nei confronti degli stranieri non già regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale.
Ne risulta un ambito di applicazione fortemente compresso tanto da rendere tale condizione mera eccezione.

APPROFONDIMENTO 2 - Giornalismo e reciprocità

I.5. La disciplina costituzionale dello straniero

Con l'entrata in vigore della Carta costituzione la condizione giuridica dello straniero ha trovato una sua specifica disciplina costituzionale, definita nell'art. 10 Cost..
La norma in esame pone al centro della tutela giuridica la figura dello straniero come individuo, sottolineando l'importanza, ai fini della determinazione del quadro normativo in materia, della centralità della tutela dei diritti fondamentali.
La ratio di tale impostazione deve ricercarsi nelle contingenze storiche presenti al momento in cui veniva redatta la nostra carta costituzionale, quando l'Italia era principalmente un paese di emigrazione e l'interesse verso una organica disciplina costituzionale del diritto dell'immigrazione appariva priva di alcun significato pratico. Tuttavia, la disciplina voluta dai costituenti, seppur scarna, è caratterizzata da una forte tutela della persona.
Il secondo comma dell'articolo in esame prevede una duplice garanzia per lo straniero presente in Italia: da un lato, infatti, la sua condizione giuridica può essere disciplinata solo dalla legge, o da norme di pari rango (riserva di legge), dall'altro, la stessa legge deve essere conforme alle norme ed ai trattati internazionali.
Attraverso tale disposizione il legislatore costituente ha voluto individuare uno standard minimo di garanzia a tutela della posizione dello straniero, senza, tuttavia, implicitamente vietare al legislatore di prevedere una normativa interna più favorevole rispetto a quella prevista in ambito internazionale e, finanche, più favorevole rispetto a quella prevista per il cittadino italiano, nel caso in cui tali previsioni siano finalizzate ad una piena attuazione del diritto di uguaglianza sostanziale.
Allo stesso modo, il secondo comma dell'art. 10 Cost. non prevede una generale parità di trattamento tra lo straniero ed il cittadino italiano, inducendo, quindi, a ritenere legittimi interventi normativi che dispongano un trattamento di favore nei confronti di chi è in possesso dello status civitatis (v. UD 13). Ciò chiaramente non significa che in tale ambito non trovi applicazione il generale principio di uguaglianza in relazione al godimento dei diritti fondamentali. Sebbene, infatti, ad un primo esame del mero dato letterale possa sembrare che i soli destinatari della norma in questione siano i cittadini, l'applicazione soggettiva della norma è stata nel tempo ampliata, soprattutto grazie al lavoro interpretativo della Corte Costituzionale.
La questione è stata affrontata per la prima volta nella sentenza del 15 novembre 1967, n. 120con la quale la Corte Costituzionale ha posto quelle che sarebbero poi state le basi per la successiva interpretazione del principio di uguaglianza, affermando che il disposto di cui all'art. 3 Cost. deve essere letto in congiunzione con gli artt. 2 e 10, co. 2 Cost., i quali, rispettivamente, statuiscono il riconoscimento a tutti gli individui della tutela dei diritti inviolabili dell'uomo e il rispetto della legge e delle norme internazionali nella determinazione della condizione giuridica dello straniero. Partendo da tali premesse, quindi, la Corte è giunta ad affermare che, seppur la lettera dell'art. 3 Cost. si riferisca espressamente solo a coloro i quali detengono lo status civitatis, il principio di uguaglianza vale anche per gli stranieri quando si opera nell'ambito dei diritti inviolabili dell'uomo. In altre parole, l'art. 3 Cost. si applica anche agli stranieri qualora la questione verta in tema di diritti fondamentali, che, in virtù del disposto dell'art. 2 Cost., devono essere garantiti a tutti gli individui, anche in conformità ai trattati internazionali. Tale impostazione, peraltro, non impedisce che a parità di posizioni soggettive, in concreto possano presentarsi situazioni differenti che il legislatore può disciplinare in modo diverso e discrezionale, nei limiti del generale principio di ragionevolezza e della applicazione del principio di uguaglianza sostanziale.
(Sul punto la Corte Costituzionale ha mantenuto costante giurisprudenza: sentenza 19 giugno 1969, n. 104sentenza 04 gennaio 1977, n. 46sentenza 15 giugno 1979, n. 54).
Per quanto attiene, invero, alla riserva di legge imposta al legislatore in tema di disciplina della condizione giuridica dello straniero, nonostante oggi appaia quale norma meramente procedurale, al momento della redazione della Carta costituzionale, tale scelta aveva un significato ben preciso. In passato, infatti, la determinazione della posizione dello straniero sul territorio nazionale e la tutela allo stesso accordata avevano un ruolo assai rilevante nella definizione delle relazioni tra gli Stati. Appare, quindi, giustificata la scelta costituzionale di sottrarre alla sfera sub legislativa la disciplina del trattamento dello straniero. Pacificamente la riserva di legge in esame è da intendersi relativa e non assoluta: alla legge, ovvero ad atti ad essa parificati, spetta la disciplina di principio, mentre la regolamentazione di dettaglio è demandata a norme di secondo grado.

APPROFONDIMENTO 1- Il Consiglio d'Europa e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo

Il Consiglio d'Europa è una organizzazione internazionale a carattere regionale, il cui obiettivo principale è la promozione della democrazia e del rispetto dei diritti umani in Europa. I Paesi membri sono attualmente 47, tra i quali vi sono tutti i Paesi membri dell'Unione europea.

Tutti gli Stati membri sono firmatari della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali dell'uomo – CEDU, che costituisce il principale strumento giuridico del Consiglio d'Europa nonché uno dei sistemi più avanzati di tutela dei diritti dell'uomo.

La CEDU, infatti, dopo un iniziale catalogo dei diritti fondamentali (artt. 1 e 15 CEDU), integrato nel tempo con i diversi Protocolli allegati alla Convenzione, crea un sistema giudiziario ad hoc, preposto alla verifica ed alla censura delle violazioni dei diritti fondamentali da parte degli Stati membri, la Corte europea di diritti dell'Uomo. L'elemento distintivo principale di tale sistema risiede nella possibilità per qualsiasi persona sottoposta alla giurisdizione di uno degli Stati membri di adire la Corte direttamente, senza nemmeno l'assistenza di un legale, ogniqualvolta ritenga che a fronte di una azione o omissione delle autorità statali sia conseguita la violazione di uno o più diritti fondamentali tutelati dalla CEDU. Inoltre, la Corte di Strasburgo svolge un importantissimo ruolo di interpretazione della portata delle singole previsioni della Convenzione rapportandole non solo ai casi concreti ma interpretandole anche alla luce dei mutamenti storici e sociali, rendendo in tal modo il catalogo dei diritti e delle libertà fondamentali della CEDU uno strumento vivo e flessibile.

Per saperne di più

Il Consiglio d'Europa non deve essere confuso con le istituzioni dell'Unione europea, tantomeno con il Consiglio europeo o il Consiglio dell'Unione europea, così come la Corte europea dei diritti fondamentali non deve essere assimilala alla Corte di Giustizia dell'Unione europea.

Pur trattandosi di due realtà differenti e distinte, con il tempo i rapporti tra il Consiglio d'Europa e l'Unione europea sono divenuti sempre più stretti, tanto che l'adesione all'Unione europea da parte di nuovi Stati è oggi subordinata alla sottoscrizione della CEDU.



APPROFONDIMENTO 2: Giornalismo e reciprocità

Con la sentenza 23 marzo 1968, n. 11 la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità della norma che vietava l'iscrizione all'albo dei giornalisti, con la conseguente impossibilità di svolgere la professione, a tutti i cittadini stranieri provenienti da Paesi in cui in tale ambito non era prevista la medesima opportunità per i cittadini italiani. In merito la Corte ha ritenuto l'illegittimità costituzionale della norma d'interesse (l. 03 febbraio 1963, n. 69, art. 46), limitatamente alla sua applicazione nei confronti dei cittadini stranieri ai quali nel proprio Paese non è garantito l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione. Appare chiaro, nel caso di specie, come la Corte abbia ritenuto che l'applicazione della condizione di reciprocità dovesse soccombere avanti alla necessità di garantire una delle più importanti manifestazioni delle libertà costituzionali, quale quella della manifestazione del pensiero, nei confronti degli stranieri ai quali, proprio per le condizioni di regime presenti nel proprio Paese, l'Italia riconosce il diritto d'asilo ai sensi dell'art. 10, co. 3 Cost.. La ratio della decisione del Giudice delle leggi trova fondamento nel voler rimediare allo squilibrio determinato dalla norma ove la stessa negava l'esercizio di una libertà costituzionale perché non garantito nel loro Paese di origine ai cittadini italiani, nonostante il nostro ordinamento preveda che all'occorrenza di una tale situazione lo straniero debba poter cercare asilo politico sul territorio nazionale. E' evidente, quindi, il motivo per cui l'applicazione della condizione di reciprocità a tali circostanze non poteva che tradursi in una palese violazione dei diritti fondamentali dell'uomo.