Unità Didattica XII - Il diritto antidiscriminatorio e la tutela dei cittadini stranieri
Sito: | Insegnamenti On-Line |
Corso: | Diritto dell'immigrazione - 6/9 CFU - TORINO - 22/23 |
Libro: | Unità Didattica XII - Il diritto antidiscriminatorio e la tutela dei cittadini stranieri |
Stampato da: | Utente ospite |
Data: | domenica, 5 gennaio 2025, 23:49 |
Descrizione
XII.1. Una materia composita: fonti internazionali
XII.2. Il diritto antidiscriminatorio nella normativa europea
XII.3. Il principio di non discriminazione nella Costituzione e nel diritto nazionale
XII.4. L'azione civile contro le discriminazioni.
Sommario
- XI.1. Una materia composita: le fonti internazionali
- XI.2. Il diritto antidiscriminatorio nella normativa europea
- XI.3. Il principio di non discriminazione nella Costituzione e nel diritto nazionale
- XI.4. L'azione civile contro le discriminazioni
- XI.5 La tutela penale
- APPROFONDIMENTO – La giurisprudenza della Corte di Giustizia
XI.1. Una materia composita: le fonti internazionali
Il primo testo internazionale nella materia in esame è la Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965, ratificata dall'Italia con la l. n. 654 del 13 ottobre 1975.
Il testo convenzionale pone l'attenzione su quattro condotte specifiche, quali la distinzione, l'esclusione, la limitazione e la preferenza, che assumono rilevanza discriminatoria nel momento in cui sono poste in essere con riferimento ai fattori di differenziazione, quali la natura dell'individuo, l'appartenenza ad una determinata cultura, l'etnia, la lingua, l'estrazione sociale o la provenienza. L'elencazione non ha carattere tassativo.
In ambito regionale, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 garantisce il godimento dei diritti fondamentali e delle libertà tutelate in assenza di distinzioni per ragioni di sesso, razza, colore, lingua, opinioni politiche, originane nazionale e sociale, appartenenza da una minoranza nazionale, fortuna, nascita o altra situazione (art. 14 CEDU).
La natura della disposizione in questione è stata definita come autonoma ma non indipendente: l'art. 14 CEDU, infatti, non tutela un generale diritto a non subire discriminazioni, ma piuttosto assicura che il godimento dei diritti e delle libertà previste dalla Convenzione avvenga senza alcuna distinzione e, pertanto, la sua violazione deve essere lamentata in relazione ad uno dei diritti tutelati dalla CEDU. È opportuno precisare, tuttavia, che l’applicazione di tale articolo non presuppone la violazione di una disposizione contenuta nella CEDU e in tal senso la sua funzione risulta autonoma. Laddove, però, è stata osservata la violazione di un diritto tutelato nella prima parte della Convenzione, la Corte non procede anche all’esame del caso alla luce dell’art. 14 CEDU.
A titolo esemplificativo della applicazione di tale disposizione si richiama, tra la numerosa giurisprudenza sul punto, Corte Edu, 13 luglio 2006, app. n. 55170/00, Kosteski v. the Former Yugoslav Republic of Macedonia.
Con l'intenzione di superare i limiti esposti, nel 2005 è entrato in vigore il Protocollo n. 12 alla CEDU, che mira a reprimere tutte le discriminazioni nel godimento di qualsiasi diritto previsto dalla legge, anche qualora non rientri nel catalogo di quelli riconosciuti dalla CEDU, firmato ma non ancora ratificato dall'Italia.
Il principio di non discriminazione è oggi diritto internazionale consuetudinario cogente e si configura in quattro obblighi gravanti sullo Stato: garantire l'uguaglianza davanti alla legge, assicurare uguaglianza nella legge, proibire la discriminazione e fornire uguale protezione a tutte le persone rientranti nella propria giurisdizione.
XI.2. Il diritto antidiscriminatorio nella normativa europea
Per quanto attiene alla tutela prevista dal diritto dell'Unione Europea, in prima istanza deve richiamarsi l'art. 21 della Carta dei diritti fondamentale dell'Unione che prevede il divieto di qualsiasi forma di discriminazione, fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale. Il lungo elenco di fattori differenziali riportato è notevolmente ampliato rispetto a quello previsto dalla CEDU e dai suoi Protocolli e, come sempre nella materia in esame, non è da considerarsi esaustivo.
Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ai sensi dell'art. 6 TUE, la Carta dei diritti fondamentali ha acquisito il medesimo valore giuridico dei Trattati, divenendo, quindi, direttamente vincolante per gli Stati.
L'art. 18 TFUE prevede che nell'ambito di applicazione dei Trattati sia vietata ogni forma di discriminazione basata sulla nazionalità, mentre l'art. 19 TFUE attribuisce al Consiglio la facoltà di adottare i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni.
Gli articoli richiamati sono la base giuridica dei due strumenti normativi maggiormente rilevanti in tema di tutela antidiscriminatoria in favore dei cittadini extraeuropei: la Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica (cd. Direttiva “razza”), recepita con d.lgs. n. 215 del 09 luglio 2003 e la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita con d.lgs. n. 216 del 09 luglio 2003.
Sebbene il campo di applicazione comune dei due testi normativi europei sia quello occupazionale – lavoro autonomo e subordinato, la Direttiva 2000/43/CE estende la propria operatività anche ad altri ambiti, quali la protezione e la sicurezza sociale, l'istruzione, l'accesso e la fornitura di beni e servizi (d.lgs. 215 del 2003, art. 3 cit.).
Attesa la sua applicazione specifica nella materia di interesse e la sua portata particolarmente ampia, ci si soffermerà sulla disamina del contenuto della Direttiva 2000/43/CE e del decreto legislativo di recepimento, tuttavia le considerazioni svolte trovano applicazione anche in relazione secondo testo normativo europeo richiamato.
Al fine di fornire una definizione comune di discriminazione, la Direttiva ne individua quattro diverse forme:
- la discriminazione diretta
- la discriminazione indiretta
- Le molestie
- l'ordine di discriminare
Si ha discriminazione diretta quando una persona, a causa della sua razza o dell'origine etnica, è trattata meno favorevolmente di quanto sia stato o sarebbe stato trattato un altro individuo in una situazione analoga (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.). Al fine di comprendere se il trattamento differenziato sulla base di una delle caratteristiche richiamate sia ragionevole ovvero discriminatorio l'operatore giuridico deve, in primo luogo, individuare un parametro di comparazione – un altro soggetto che opera in una situazione analoga – e stabile se la caratteristica in esame – l'origine etnica o la razza - è elemento essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività o il godimento del diritto in esame. Nel caso in cui la risposta sia affermativa, la ragionevolezza del trattamento differenziato deve essere valutata alla luce dei parametri di legittimità e proporzionalità dell'obiettivo perseguito.
Qualora tali parametri non siano rispettati, il trattamento differenziato dovrà considerarsi discriminatorio.
Si incorre, invece, in una discriminazione indiretta quando una disposizione, un atto, un provvedimento, un comportamento o una prassi all'apparenza neutra comporta una posizione di svantaggio per le persone di una determinata razza o origine etnica rispetto ad altre persone (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.). Anche in questo caso sarà necessario valutare se tale svantaggio non sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima e se gli strumenti utilizzati per conseguirla siano appropriati e necessari.
Tra le condotte discriminatorie rilevanti, la Direttiva europea introduce quella delle molestie, individuabili in tutti quei comportamenti indesiderati adottati per motivi di razza o origine etnica e aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità della persone e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.). La specifica previsione di tale comportamento discriminatorio appare quantomai opportuna poiché permette di contrastare comportamenti che presi singolarmente non potrebbero avere una autonoma rilevanza sanzionabile.
Infine, tra i comportamenti discriminatori viene inserito per la prima volta l'ordine di discriminare, condotta spesso riscontrabile nel reclutamento lavorativo per il tramite delle agenzie di collocamento ove i datori di lavoro richiedono che la mansione offerta non venga assegnata a lavoratori di una specifica origine etnica (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.).
APPROFONDIMENTO – La giurisprudenza della Corte di Giustizia.
La Direttiva 2000/43/CE ha introdotto nel nostro ordinamento importanti norme concernenti il ruolo e l'azione degli enti e delle associazioni rappresentative degli interessi diffusi sottesi alle discriminazioni in esame. In particolare, il d.lgs. 215 del 2003, art. 6, cit., istituisce, presso il Ministero delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni. L'iscrizione è subordinata al vaglio non solo della regolarità della costituzione formale dell'ente o della associazione, ma altresì alla verifica dello svolgimento di costante e concreta attività nell'ambito di interesse.
L'inserimento in tale Registro conferisce una legittimazione diretta ad agire in nome e per conto del soggetto discriminato, o anche in via autonoma, a sostegno delle ragioni di costui (d.lgs. 215 del 2003, art. 5, cit).
Inoltre, detti enti e associazioni possono agire per i casi di discriminazione collettiva, quando a fronte della sussistenza di un comportamento, di un atto o di un provvedimento discriminatorio non sia possibile individuare in modo chiaro e specifico le vittime di tale discriminazione (d.lgs. 215 del 2003, art. 5, cit).
Con il medesimo testo normativo di recepimento è stato istituito presso il Ministero delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, l'Ufficio per la promozione e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza e sull'origine etnica – UNAR. L'Ufficio ha il compito di fornire assistenza alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori e di implementare la conoscenza della normativa e degli strumenti di tutela in ambito antidiscriminatorio attraverso studi, ricerche e corsi di formazione (d.lgs. 215 del 2003, art. 6, cit).
Sia il d.lgs. 215 del 2003, cit. e il d.lgs. 216 del 2003, cit. rimandano, ai fini della tutela giurisdizionale contro atti e comportamenti discriminatori, al d.lgs. 286 del 1998, art. 44, cit. che disciplina l'azione civile contro la discriminazione (v. par. 4).
A conclusione della disamina della normativa europea in materia di diritto antidiscriminatorio in favore dei cittadini di Paesi terzi devono ricordarsi le clausole di non discriminazione in favore dei cittadini stranieri in possesso di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e dei titolari della protezione internazionale.
La Direttiva 2003/109/CE del 25 novembre 2003 sullo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, recepita con il d.lgs. n. 3 dell'08 gennaio 2007 prevede il riconoscimento della parità di trattamento con i cittadini europei in diversi ambiti, tra i quali, l'esercizio di attività lavorativa in via autonoma e subordinata, l'istruzione, la formazione professionale, le prestazioni di assistenza sociale, l'accesso a beni e servizi, tra cui l'assegnazione degli alloggi di edilizia agevolata.
Le disposizioni contenute nella Direttiva in tema di parità di trattamento non avevano carattere obbligatorio, residuando, quindi, in capo al singolo Stato membro la facoltà di derogare a tale principio in sede di recepimento con riferimento a specifici settori, tra cui l'accesso ad attività lavorative riservate ai cittadini nazionali e alle prestazioni di assistenza sociale, il godimento delle quali poteva essere limitato ad un nucleo essenziale. L'Italia non ha optato per tale facoltà e deve, quindi, ritenersi vigente un pieno diritto di parità di trattamento in capo ai cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Il principio di parità di trattamento in materia di assistenza sanitaria e sociale è altresì riconosciuto ai titolari di protezione interazionale (d.lgs. n. 18 del 2014, cit.).
XI.3. Il principio di non discriminazione nella Costituzione e nel diritto nazionale
L'art. 2 Cost. riconosce il pieno godimento dei diritti inviolabili dell'uomo a tutti gli individui, prescindendo dal possesso dello status civitatis ovvero della regolarità del soggiorno sul territorio nazionale.
Allo stesso modo, anche il principio di uguaglianza previsto dall'art. 3 Cost., trova applicazione in favore di ogni essere umano: nonostante, infatti, sul piano letterale, la sua operatività parrebbe limitata ai soli cittadini italiani, l'interpretazione della Corte Costituzionale ha riconosciuto la sua necessaria applicazione anche in capo ai cittadini stranieri (v. UD. I).
L'art. 3 Cost. riconosce l'uguaglianza di ogni persona avanti alla legge senza distinzione alcuna, stigmatizzando in tal modo il principio di uguaglianza in senso formale. Come è noto, la medesima disposizione costituzionale impone allo Stato di dare applicazione concreta a tale principio, rimuovendo gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di tale obiettivo – principio di uguaglianza sostanziale.
Discende direttamente da tali norme il principio di ragionevolezza che si pone quale criterio guida nel giudizio di legittimità costituzionale e punto di equilibrio tra il riconoscimento astratto della pari titolarità dei diritti e del concreto differenziato godimento degli stessi. Pertanto, la Corte costituzionale riconosce la violazione del principio di uguaglianza quando la previsione legislativa di un trattamento differenziato nell'ambito di godimento di diritti fondamentali non sia giustificata da esigenze di pari rango e supportata da un ragionevole motivo.
Ad esemplificazione del ragionamento sotteso alla applicazione del principio di ragionevolezza si richiama la sentenza della Corte Costituzionale, 28 novembre 2005, n. 432, in tema di legittimità costituzionale della normativa della Regione Lombardia che limitava l'accesso al diritto alla circolazione gratuita sui trasporti pubblici alle persone totalmente invalide residenti nel territorio lombardo cittadine italiane.
Il Giudice di legittimità ha precisato che, oltre ad un nucleo irrinunciabile di diritti dell'uomo che sono inviolabili ed il cui godimento spetta a tutti senza distinzione, vi sono posizioni soggettive esterne a tale nucleo in relazione alle quali il legislatore può prevedere regimi differenziati di trattamento a condizione che vi sia una ragione ad essi sottesa non palesemente irrazionale o arbitraria.
Nel caso in esame, la Corte Costituzionale, pur rilevando come la possibilità di godere del trasporto pubblico gratuito da parte dei disabili non rientri nel nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, ha rilevato la mancanza di una ragionevole correlazione tra il possesso dello status civitatis, quale condizione di ammissione al godimento di tale diritto, ed i requisiti necessari per la sua fruizione, quali l'invalidità totale e la residenza nella Regione Lombardia.
Le prime norme italiane in materia di diritto antidiscriminatorio sono riconducibili a due grandi tematiche: le condotte discriminatorie e antisindacali nel mondo del lavoro e le discriminazioni di genere e la tutela delle pari opportunità.
Nell'ambito della disciplina del diritto del lavoro, lo Statuto dei lavoratori prevede la nullità di qualsiasi atto o patto posto in essere dal datore di lavoro nei confronti di un lavoratore che abbiano un fine discriminatorio per motivi sindacali, poi esteso ai motivi politici, religiosi, razziali, di lingua o di sesso (L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15). Tuttavia, tale disposizione trova applicazione solo nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato e a fronte di un comportamento del datore di lavoro.
Con specifico riferimento alla posizione dei cittadini stranieri, la tutela contro le discriminazioni è garantita dalla disciplina speciale in materia di immigrazione.
Se la parità di trattamento ai lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti è tutelata dal d.lgs n. 286 del 1998 cit., art. 2, anche in forza della Convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata dall'Italia con la legge n. 158 del 10 aprile 1981, il medesimo testo normativo identifica il quadro dei diritti di cui gode lo straniero, che varia a seconda della sua posizione sul territorio nazionale.
In primo luogo, la norma in esame costituisce attuazione del disposto dell'art. 2 Cost. che trova applicazione nei confronti di tutte le persone, indipendentemente dalla regolarità del loro soggiorno, per poi definire una ben più ampia gamma di diritti spettanti, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli stranieri regolarmente residenti in Italia.
Una clausola generale di non discriminazione è prevista dal d.lgs. n. 286 del 1998, art. 43, cit., la cui portata deve essere valuta in congiunzione con la norma citata.
La norma offre una definizione unitaria di discriminazione che ricomprende tutti quei trattamenti differenziati, basati su una elencazione non esaustiva di ragioni, posti in essere sia in modo diretto sia in modo indiretto. Le condotte individuate devono comportare una lesione nel godimento, nel riconoscimento ovvero nel mero esercizio dei diritti fondamentali.
Sebbene la disposizione in esame non preveda una chiara definizione di discriminazione indiretta, le lacune normative ben possono essere colmate dalla disciplina europea in materia, entrata in vigore successivamente al d.lgs. n. 286 del 1998, cit.
Uno degli elementi di forza della disciplina interna è riconosciuto nella individuazione di un elemento oggettivo nella definizione di comportamento discriminatorio, ove rileva l'effetto discriminatorio della condotta posta in essere, piuttosto che l'intento e la volontà dell'agente, circostanza che permette di colpire anche quei comportamenti o atti neutri le cui conseguenze hanno una connotazione discriminatoria.
Il legislatore, dopo aver fornito una definizione generale di trattamento discriminatorio, individua delle condotte specifiche aventi indubbiamente natura discriminatoria (d.lgs. n. 286 del 1998, art. 43, co. 2). La scelta di stigmatizzare determinati comportamenti si fonda sulla volontà di coprire, seppur senza alcuna pretesa di esaustività, gli ambiti in cui più frequentemente si verificano condotte od atti discriminatoti, come l'accesso ai servizi pubblici, l'offerta privata di beni i servizio ovvero l'accesso all'impiego o all'alloggio.
XI.4. L'azione civile contro le discriminazioni
La tutela giudiziaria prevista contro
gli atti discriminatori è disciplinata dal d.lgs. n. 286 del 1998,
art. 44, cit., che fornisce l'unico altro strumento di azione contro
le discriminazioni oltre a quelli previsti nell'ambito del diritto
del lavoro.
Il procedimento è regolato dal rito sommario di cognizione, d.lgs. 150 del 2011, art. 28, cit. e la competenza è individuata in capo al Tribunale ordinario del luogo in cui ha la residenza il ricorrente. La giurisdizione del Giudice ordinario e non amministrativo è giustificata dall'inclusione del diritto alla non-discriminazione nella sfera dei diritti fondamentali della persona (Cass. Civ., S.U., 30 marzo 2011, n. 7186).
La legittimazione ad agire risiede in capo al cittadino straniero che si ritiene vittima di discriminazione, indipendentemente dalla regolarità del suo soggiorno, e alle associazioni portatrici degli interessi di cui si afferma la violazione, le quali possono intervenire nel giudizio a supporto e sostegno dell'interessato, su sua delega ovvero anche in modo autonomo.
Rispetto all'onere probatorio, la disciplina antidiscriminatoria prevede che ove il ricorrente fornisca elementi di fatto, anche di natura statistica, dai quali sia presumibile l'esistenza degli atti, delle prassi o dei comportamenti discriminatori lamentati, il convenuto ha l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. L'inversione dell'onere della prova riportata nella norma – d.lgs. n. 150 del 2011, art. 28, co 4, cit. - è frutto del recepimento tardivo di tale disposizione contenuta nelle Direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE, avvenuto solo dopo l'inizio di una procedura di infrazione nei conforti dell'Italia
Il Giudice, all'esito del procedimento, riconosciuto il carattere discriminatorio della condotta o dell'atto oggetto del giudizio, può condannare la parte convenuta al risarcimento di un danno e ordinare la cessazione del comportamento stesso ovvero la revoca dell'atto.
XI.5 La tutela penale
L’introduzione nel nostro ordinamento di una sanzione penale per gli atti di razzismo si ha con la ratifica ed attuazione della Convenzione di New York del 1965 sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, avvenuta con la l. n. 654 del 13 ottobre 1975, nota come Legge Reale che all'art. 3 punisce per la prima volta come autonome fattispecie di reato: la propaganda razzista, l’incitamento alla discriminazione razziale e agli atti di violenza nei confronti di persone appartenenti ad un diverso gruppo nazionale, etnico o razziale, il compimento di atti di violenza nei confronti dei medesimi soggetti e, infine, la costituzione di associazioni ed organizzazioni con scopo di incitamento all'odio o alla discriminazione razziale.
Nel 1993 tale normativa viene profondamente modificata dalla cd. legge Mancino (d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito nella l. n. 205 del 25 giugno 1993) poi successivamente ritoccata nel 2006, e da ultimo riversata nel codice penale in virtù del d.lgs. n. 21 del 02 marzo 2018.
Oggi la tutela penale in materia di discriminazione è quindi prevista all’art. 604 bis c.p. “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, inserito in un nuovo capo del codice penale, dal significativo titolo “Delitti contro l’uguaglianza”.
La norma punisce con la reclusione fino a 1 anno e 6 mesi e fino a 6.000 euro di multa chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. La fattispecie potrebbe destare degli interrogativi sulla compatibilità con il diritto costituzionale di manifestare il proprio pensiero. Tuttavia non sussiste questo conflitto nel momento in cui si considera che la propaganda di idee fondate sull’odio razziale mina la convivenza e costituisce la negazione del valore dell’essere umano tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Alla stessa pena soggiace chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; per integrare il reato è sufficiente la commissione o l’istigazione a commettere anche di un solo atto di discriminazione.
Maggiore la pena, in quanto maggiore il disvalore, nel caso in cui la discriminazione si accompagni alla violenza: viene infatti punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Infine, una ulteriore disciplina è prevista per i reati associativi razzisti.
Innanzitutto, la norma vieta ogni organizzazione, comunque costituita, che abbia per scopo la commissione di reati a sfondo razzista. Punisce la mera partecipazione o assistenza all'attività di qualsivoglia organizzazione collettiva (associazioni, movimenti, gruppi o vere e proprie organizzazioni) con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Maggiore la pena per chi dirige o promuove tali soggetti collettivi.
APPROFONDIMENTO – La giurisprudenza della Corte di Giustizia
Una recente pronuncia della Corte di Giustizia permette di ben comprendere l'ambito di applicazione della Direttiva e delle nozioni ivi contenute.
Il caso, CHEZ Razpredelenie Bulgaria AD / Komisia za zashtita ot diskriminatsia del 16 luglio 2015, C-83/14, prende le mosse dalla causa contro la discriminazione intentata dalla sig.ra Nikolovna, imprenditrice individuale, che gestisce un negozio di alimentari sito in una quartiere di una città bulgara notoriamente abitato in larga maggioranza da cittadini bulgari di etnia rom.
Negli anni 1999 e 2000 la compagnia elettrica bulgara CHEZ RD posizionava sui pali nella pubblica via nel quartiere in questione dei contatori della linea elettrica ad una altezza di 6/7 metri, mentre, negli altri quartieri, i medesimi contatori erano posizionati ad una altezza di circa un metro e mezzo. A giustificazione di tale comportamento l'azienda elettrica affermava che la prassi in uso era sorretta dal fatto che a fronte della maggiore presenza di persone di etnia rom residenti in quel quartiere conseguiva un maggior numero di manomissioni ed allacci illeciti ai contatori.
La sig.ra Nikolovna, cittadina bulgara non di etnia rom, lamentava il maggior svantaggio nell'accedere ai contatori per verificare il proprio consumo rispetto agli altri abitanti della città residenti in altri quartieri.
La Corte di Giustizia, rimandando al giudice del rinvio la determinazione della natura diretta o indiretta della discriminazione, afferma che la nozione di “discriminazione fondata sull'origine etnica” attua il principio di parità di trattamento tra le persone e può trovare applicazione anche nel caso in cui la persone che si trova in posizione di svantaggio per la prassi discriminatoria adottata – ovvero appartenente neutra in caso di discriminazioni indirette – non condivida l'origine etnica delle persone destinatarie di tali prassi.
Inoltre l'organo di giustizia europeo afferma che ai fini del riconoscimento della natura discriminatoria di un comportamento, non rileva se lo svantaggio che ne deriva sia di particolare tenuità – come l'accesso poco agevole al contatore dell'energia elettrica per la verifica dei consumi.
Infine, l'oggettiva esigenza di prevenire la sicurezza nel trasporto e nell'erogazione della energia nonchè il corretto accertamento del suo consumo può giustificare una tale prassi solo nel caso in cui sia appropriata e necessaria a raggiungere tale obiettivo e lo svantaggio cagionato sia proporzionato al fine perseguito. A tali fini deve essere verificata l'insussistenza di altri mezzi o strumenti utili a raggiungere i medesimi scopi.