Unità didattica XIII – La cittadinanza europea

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Corso: Diritto dell'immigrazione - 6/9 CFU - TORINO - 22/23
Libro: Unità didattica XIII – La cittadinanza europea
Stampato da: Utente ospite
Data: domenica, 5 gennaio 2025, 22:14

Descrizione

Unità didattica XIII – La cittadinanza europea


XIII.1. La libera circolazione dei cittadini europei: l'ingresso e il soggiorno

La libera circolazione delle persone tra gli Stati membri è sempre stato uno dei principali obiettivi dell'integrazione europea. Nel testo del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, siglato a Roma il 25 marzo 1957, tale diritto veniva riconosciuto come una delle quattro libertà fondamentali della Comunità europea – affiancandosi al diritto alla libera circolazione dei capitali, dei servizi e delle merci.
Inizialmente l'esercizio di tale libertà era strettamente legato allo svolgimento di una attività lavorativa, quale movimento di fattori produttivi piuttosto che di persone, in linea con la logica prettamente economica e commerciale sottesa al percorso di integrazione europea. Solo in seguito, grazie ad un importante lavoro interpretativo delle norme dei Trattati da parte della Corte di Giustizia, tale libertà veniva estesa ad altre categorie di soggetti, ammettendo al godimento di tale diritto tutti i cittadini degli Stati membri, indipendentemente dallo svolgimento di una attività lavorativa. Tale orientamento è stato codificato in diversi atti di diritto derivato, regolamenti e direttive, poi confluite nella Direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, recepita con il d.lgs. 06 febbraio 2007, n. 30.
Con l'entrata in vigore del Trattato sull'Unione Europea, firmato a Maastricht il 07 febbraio 1992, viene, per la prima volta, istituita la cittadinanza dell'Unione Europea, che, ad oggi, trova il suo fondamento giuridico nell'art. 9 TUE e nell'art. 20 TFUE, ove si definisce cittadino europeo chiunque possieda la cittadinanza di uno degli Stati membri, i quali continuano a detenere il potere sovrano circa la determinazione delle condizioni di attribuzione e revoca della cittadinanza nazionale, ma tali legislazioni non possono porsi in contrasto con il diritto europeo né possono frustrarne l'applicazione.
L'art. 21 TFUE individua espressamente il diritto di circolare e soggiornare nei Paesi membri in capo ad ogni cittadino europeo, secondo le condizioni ed i limiti previsti dalle disposizioni dei Trattati e del diritto derivato. Appare, quindi, come la libertà in esame non possa qualificarsi quale diritto soggettivo perfetto, il cui unico presupposto è il possesso della cittadinanza europea, ma il suo godimento è subordinato alla sussistenza di ulteriori requisiti in capo all'interessato.
Giova precisare che le disposizioni in materia di libera circolazione dei cittadini europei trovano applicazione anche nei confronti dei cittadini di Islanda, Liechestein e Norvegia, in forza dell'Accordo sullo Spazio Economico Europeo, firmato a Oporto il 2 maggio 1992, reso esecutivo con la l. 28 luglio 1993, n. 300, dei cittadini della Confederazione elvetica, ai sensi dell'Accordo sulla libera circolazione delle persone del 21 giugno 1999, ratificato con la l. 15 novembre 2000, n. 364, e dei cittadini di San Marino, in virtù della Convenzione di amicizia e buon vicinato tra l'Italia e la Repubblica di San Marino del 31 marzo 1939, ratificata con la l. 06 giugno 1939, n. 1320.
Per quanto attiene all'ingresso del cittadino europeo nel territorio nazionale, ai sensi del d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 5, l'unico requisito richiesto è il possesso di un documento di identità in corso di validità, senza che debba essere preventivamente ottenuto un visto di ingresso. Tale documento può essere, alternativamente, la carta di identità o il passaporto e deve permettere di poterne accertare la cittadinanza di uno degli Stati membri.
Le uniche limitazioni consentite all'ingresso dei cittadini europei sono: la mancanza di un documento di identità valido, sanabile con la sua esibizione entro le 24 ore dalla richiesta e la sussistenza di gravi e fondate ragioni di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità pubblica.
Le condizioni sottese al soggiorno del cittadino europeo, nonché la sua condizione giuridica, mutano a seconda della durata del soggiorno stesso, che può essere così riassunta: 

  • meno di tre mesi 
  • più di tre mesi 
  • permanente
Il cittadino comunitario può soggiornare in uno Stato membro per un periodo non superiore ai tre mesi senza alcuna formalità particolare, oltre al mero possesso di un valido documento di identità, diritto che si estende anche ai familiari aventi una cittadinanza extraeuropea (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 6).
Ai fini della decorrenza di tale termine, l'interessato ha l'onere di segnalare la propria presenza presso un ufficio di polizia, ai sensi del d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 5, co. 5 bis, tuttavia la determinazione delle modalità di adempimento a tale onere è stata demandata ad un decreto del Ministero dell'Interno, ad oggi non ancora adottato. Appaiono così poco chiare le procedure che devono seguirsi in tale caso e, soprattutto, quale sia il termine entro cui espletare tale compito.
La prassi italiana che si è venuta ad instaurare si fonda su un presunzione, secondo cui, in caso di mancata dichiarazione e di prove contrarie, il soggiorno è considerato come superiore ai tre mesi. Da ciò dovrebbe conseguire che, accertata la mancanza dei requisiti richiesti a tali fini, il cittadino comunitario possa essere allontanato dal territorio nazionale. Giova evidenziare che la Direttiva 2004/38/CE, cit., art. 5 ammette la facoltà per gli Stati di prevedere un termine per la dichiarazione di presenza, che deve essere ragionevole e non discriminatorio, la cui mancata osservanza può essere sanzionata con misure proporzionate. Appare, quindi, dubbia la compatibilità della prassi italiana con il disposto comunitario, attesa non solo l'aleatorietà di tale prescrizione, ma altresì il ricorso ad una presunzione assoluta a cui consegue, in caso di assenza di una prova contraria, il cui onere di presentazione grava sull'interessato, la possibilità di un allontanamento.
Durante il soggiorno di durata inferiore ai tre mesi, il cittadino europeo può intraprendere una attività lavorativa, sia subordinata sia in forma autonoma, ovvero cercare attivamente una occupazione, anche attraverso la frequentazione di corsi di formazione. In merito giova evidenziare che, nel caso in cui l'interessato sia iscritto al Centro per l'impiego e dimostri di avere risorse necessarie al fine di impedire che la sua presenza sul territorio nazionale diventi un onore eccessivo per il sistema di assistenza sociale italiano, la sua presenza può protrarsi sino a sei mesi, periodo che può ulteriormente essere prolungato qualora sia in grado di dimostrate di avere una fondata aspettativa di ottenere un impiego in Italia (CGCE, 26 febbraio 1991, C-292/89, The Queen/Immigration Appeal Tribunal, ex parte Antonissen; CGCE, 26 maggio 2003, C-171/91, Tsiotras/Landeshauptstadt Stuttgart. Sempre in tema di trattamento dei cittadini europei in cerca di lavoro si veda CGCE, 04 giugno 2009, cause riunite C-22/04 e C-23/04, Athanasios Vatsouras e Josif Koupatantze/Arbeitsgemeinschaft (ARGE) Nürnberg 900).
Nel caso in cui un cittadino europeo intenda soggiornare sul territorio nazionale per un periodo superiore ai tre mesi, egli è tenuto a dimostrare la sussistenza di determinati requisiti, che variano seconda della categoria in cui rientra l'interessato: 1) lavoratore; 2) studente; 3) inattivo; 4) familiare che raggiunge o accompagna il cittadino dell'Unione europea titolare del diritto al soggiorno (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 7).
In tutti i casi, il cittadino europeo che intende soggiornare sul territorio nazionale deve procedere all'iscrizione anagrafica presso il Comune di dimora, al quale spetta la verifica della sussistenza dei requisiti previsti dalla normativa. L'iscrizione ha carattere dichiarativo del diritto al soggiorno dell'interessato e non costitutivo, atteso che la titolarità di tale diritto discende direttamente dal Trattato dell'Unione europea e dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Giova precisare che il mancato adempimento di tale prescrizione non comporta l'allontanamento del cittadino europeo, ma solo la comminazione di un sanzione amministrativa.
I cittadini europei che svolgono un'attività lavorativa in Italia, sia essa in forma subordinata o autonoma, ai fini dell'adempimento di cui sopra sono semplicemente tenuti a presentare documentazione attestante tale situazione, che dà loro diritto, altresì, all'iscrizione al servizio sanitario nazionale ed al godimento delle prestazioni di sicurezza sociale (v. UD XI) (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 7, co. 1 lett. a)).
Il diritto al soggiorno viene conservato anche nel caso in cui il cittadino europeo, dopo aver svolto attività lavorativa in Italia si trovi privo di una occupazione per inabilità al lavoro dovuta a malattia o infortunio, disoccupazione involontaria e frequentazione di un corso di formazione professionale, legato alla attività svolta in precedenza (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 7, co. 3).
Diversa è, invero, la situazione del cittadino dell'Unione europea che frequenta in Italia un corso di studi o di formazione presso un istituto pubblico o privato riconosciuto ovvero che non svolge alcuna attività lavorativa ed è, quindi, inattivo. In entrambi i casi, il godimento del diritto al soggiorno è subordinato alla dimostrazione di risorse economiche sufficienti al sostentamento di sé stesso e dei propri familiari, nonché la disponibilità di una assicurazione sanitaria (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 7, co. 2 ).
La ratio sottesa a tale limitazione del diritto alla libera circolazione è da ricercarsi nella volontà di evitare che il godimento di tale diritto si trasformi in un onere eccessivo per il sistema sociale dei singoli Paesi membri. Tuttavia, tale previsione è indice del superamento di una visione strettamente legata alla circolazione dei fattori produttivi e della attribuzione ad ogni cittadino europeo del pieno godimento del diritto alla libera circolazione sul territorio europeo.
La determinazione della sufficienza delle risorse economiche non è una operazione agevole , tenuto conto che la direttiva 2004/38/CE, cit., art. 8 non permette agli Stati membri di individuare un limite di reddito fisso e prestabilito, ma indica quale parametro interpretativo della nozione in esame l'agevolazione del pieno godimento del diritto alla libera circolazione da parte dei cittadini europei. Le risorse che da prendere in considerazione a tali fini sono le più diverse: entrate con cadenza regolare ovvero somme capitalizzate, disponibilità economiche assicurate da soggetti terzi anche non conviventi e residenti in altro Stato membro. 
In Italia il parametro di riferimento ai fini della determinazione della sufficienza delle risorse economiche è stato individuato nell'importo annuo per l'assegno sociale.
Per saperne di più COMUNICAZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO COM (2009) 313, Guida ad una migliore trasposizione e applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente all'interno del territorio degli altri Stati membri
A seguito del regolare e continuativo soggiorno sul territorio nazionale per un periodo superiore ai cinque anni il cittadino europeo ha diritto al soggiorno permanente (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 14).
La continuità del soggiorno è riconosciuta nel caso in cui l'interessato non si sia allontanato dal territorio nazionale per un periodo superiore ai sei mesi per ogni anno, che possono aumentare nel caso in cui l'assenza sia giustificata dall'espletamento del servizio militare nel Paese di origine ovvero da motivi di salute o lavorativi.
Ai fini del computo della durata del soggiorno la Corte di Giustizia dell'Unione europea, nella sentenza Ziolkowski e Szeja, ha statuito due importanti principi. In primo luogo, ai fini della regolarità del soggiorno non è sufficiente la mera iscrizione anagrafica per un periodo di cinque anni, ma deve valutarsi se durante tale soggiorno siano perdurati in capo al richiedente i requisiti richiesti a tali fini ovvero siano venuti meno anche solo per un periodo. In secondo luogo, nel caso in cui la richiesta provenga da cittadini di Stati membri di recente ingresso nell'Unione europea, ai fini del riconoscimento del diritto al soggiorno permanente, devo conteggiarsi anche i pregressi periodi di soggiorno legale nel territorio del Paese membro, secondo le regole nazionali circa il soggiorno dei cittadini di Stati terzi (CGCE, 22 dicembre 2011, C-424/10 e C/425/10, Tomasz Ziolkowski e Barbara Szeja e altri/Land Berlin).
Dal diritto al soggiorno permanente discende la possibilità per il cittadino europeo e per i suoi familiari di poter rimanere sul territorio nazionale anche qualora vengano meno i requisiti per il soggiorno di cui al d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 7. Inoltre, il loro allontanamento può essere disposto solo per motivi di sicurezza dello Stato o di imperativi motivi di pubblica sicurezza.
A completamento di quanto esposto giova evidenziarsi che è stata prevista la possibilità per i Paesi già membri dell'Unione europea di limitare la libertà di circolazione nel proprio territorio nei confronti dei cittadini di Paesi neo europei, a fronte della rilevazione dell'esistenza di un rischio di gravi perturbazioni sul loro mercato del lavoro. In particolare, tali restrizioni potevano essere adottate nei confronti dei cittadini degli otto Paesi Europa dell'est, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia, che hanno aderito all'Unione europea dal 01 gennaio 2004, e di Romani e Bulgaria, entrate a far parte dell'Unione dal 01 gennaio 2007. Tali restrizioni non sono state previste in occasione della adesione di Cipro e Malta.
Atteso che tale facoltà poteva essere esercitata per un periodo massimo di sette anni, ad oggi tutti i cittadini dei citati Paesi membri dell'Unione europea godono di un pieno diritto alla libera circolazione sul territorio europeo, mentre tali limitazioni, ove applicate, sono in vigore per i cittadini croati, la cui adesione all'Unione europea è avvenuta il 01 luglio 2013.
APPROFONDIMENTO 1 - La Brexit e gli effetti sulla libera circolazione dei cittadini europei

XIII.2. I diritti connessi alla cittadinanza europea

Ai sensi dell'art. 20 TFUE il cittadino europeo, già soggetto ai diritti ed agli obblighi previsti dal Trattato, gode di una serie di diritti, oltre alla già analizzata libertà di circolazione sul territorio dell'Unione europea:

  • il diritto di parità di trattamento con il cittadino nazionale

  • l'elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo ed alle elezioni locali in qualsiasi Stato membro

  • il diritto alla protezione diplomatica per i cittadini dell'Unione che si trovano in un Paese terzo

  • il diritto alla petizione al Parlamento europeo e di rivolgersi al Mediatore europeo

  • il diritto di comunicare con le istituzioni dell'Unione europea nella propria lingua, tenuto conto che tutte le lingue dei Paesi membri sono lingue ufficiali.

Ai fini della presente Unità Didattica si porrà l'attenzione sui primi due diritti elencati, attesa la loro connessione con la circolazione dei cittadini europei all'interno ed all'esterno dei confini dell'Unione europea.

Il principio di parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali trova la sua originaria collocazione nell'ambito della disciplina della libertà di circolazione e soggiorno dei lavoratori, codificato nell'attuale art. 45 TFUE e dal Regolamento (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione e prevede che al cittadino europeo debba essere accordato il medesimo trattamento previsto per i cittadini nazionali. A tali disposizioni sono poi state affiancate norme di carattere generale, frutto di un inteso lavoro giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell'Unione europea. Attualmente, quindi, pur permanendo una specifica disciplina con riferimento alla posizione dei lavoratori, il principio in esame è disciplinato, in termini generali, dall'art. 18 TFUE, nonchè dal d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 19, ove si fa divieto di ogni forma di discriminazione basata sulla nazionalità nell'ambito di applicazione dei Trattati dell'Unione europea.

Ai fini di comprendere l'attuale concreta portata di tale principio deve porsi l'attenzione sull'ampliamento della sua applicazione sotto un duplice profilo: soggettivo e oggettivo.

Con riferimento all'applicazione ratione personae del divieto di discriminazione si evidenzia che inizialmente esso era riservato ai soli cittadini europei economicamente attivi, che, esercitando il loro diritto alla libera circolazione, si trasferivano in un altro Stato membro per svolgere attività lavorativa subordinata (art. 45 TFUE) o un'attività di impresa o in forma autonoma (art. 49 TFUE). In proposito la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, con la sentenza Steen (CGCE, 28 gennaio 1992, C- 332/90, Steen/Deutsche Bundespost) aveva affermato che le disposizioni del Trattato in materia non potevano essere fatte valere da parte del cittadino europeo che non aveva soggiornato in modo stabile in un altro Paese membro, rilevando, quindi, la necessaria presenza di un elemento di transnazionalità nella pretesa del lavoratore ad un trattamento di parità rispetto al cittadino nazionale.

La legittimità di una tale limitazione all'ambito di operatività del divieto di discriminazione su base nazionale trova la sua giustificazione giuridica nello stretto legame che in allora intercorreva tra lo svolgimento di una attività lavorativa e l'esercizio della libera circolazione delle persone nel territorio dell'Unione europea.

Grazie ad una interpretazione estensiva dell'attuale art. 18 TFUE da parte della Corte di Giustizia dell'Unione europea e ad un ampliamento delle categorie di persone che potevano beneficiare della libertà di circolazione e soggiorno, tali limitazioni andarono ad affievolirsi sempre più nel corso del tempo.

Pertanto il principio di parità di trattamento è stato ritenuto applicabile anche nei confronti di quei cittadini europei che si trasferivano per motivi di studio (CGCE, 11 luglio 2002, C- 224/98, Marie-Nathalie D'Hoop/Office national de l'emploi) o nei confronti dei cittadini inattivi.

Inoltre, l'applicazione del divieto di discriminazione viene scissa dall'effettivo esercizio del diritto alla libera circolazione, tanto da ricomprendere nell'ambito di applicazione finanche i cittadini europei che pur prestando i propri servizi in altri Stati membri, non vi avevano spostato la residenza (CGCE, 11 luglio 2002, C-60/0, Mary Carpenter/Secretary of State for the Home Department; CGCE, 21 febbraio 2006, C-152/03, Ritter-Coulais/Finanzamt Germersheim).

Con riferimento all'ambito di applicazione oggettivo del principio di trattamento nazionale, in primo luogo, occorre evidenziare che esso si estende non solo alle discriminazioni dirette, nelle quali è esplicito l'elemento della nazionalità quale criterio discriminatorio, ma altresì a quelle indirette o dissimulate, che conseguono il medesimo risultato delle prime ricorrendo a criteri diversi dalla nazionalità.

Il principio in esame era limitato alle condizioni proprie dei lavoratori, dall'accesso al lavoro alla retribuzione, l'accesso alla formazione professionale, alle indennità di disoccupazione e, in generale, tutta la disciplina legale e convenzionale del rapporto di lavoro. In merito si evidenzia che il Reg. n. 492 del 2011, cit., art. 7, co. 4, relativo alla libera circolazione dei lavoratori, sancisce la nullità di ogni clausola presente nei contratti collettivi o individuali di lavoro che preveda un trattamento discriminatorio nei confronti di cittadini di un altro Paese membro.

Il divieto di discriminazione si estende a tutti i “vantaggi sociali e fiscali” attribuiti ai lavoratori nazionali (Reg. n. 492 del 2011, cit., art. 7, co. 2). L'interpretazione di tale concetto è stata oggetto di numerose pronunce da parte della Corte di Giustizia dell'Unione europea che ha, in tal modo, ampliato l'ambito di applicazione del divieto di discriminazione per motivi di nazionalità. In materia la casistica è estremamente ampia e ricomprende, a titolo esemplificativo: sovvenzioni del fondo assistenza per diversamente abili (CGCE, 11 aprile 1973, C-76/72, Michel S./Fonds national de reclassement social des handicapés); benefici per discendenti a carico del lavoratore (CGCE, 08 giugno 1999, C-337/97, C.P.M. Meeusen/Hoofdirectie van de Informatie Beher Groep) riduzioni sulle tariffe ferroviarie per le famiglie numerose (CGCE, 30 aprile 1975, C-32/75, Anita Cristini/Société des chemins de fer français); meccanismi di tutela in caso di licenziamento per grave inabilità lavorativa (CGCE, 13 dicembre 1972, C-44/72, Pieter Marsman/M. Rosskamp).

Un particolare deroga al divieto di discriminazione sulla base della nazionalità è ammessa, a talune condizioni, nell'ambito del pubblico impiego.

I cittadini comunitari possono partecipare a condizioni di parità dei cittadini italiani, tuttavia alcune posizioni possono essere legittimamente riservate a questi ultimi, solo nel caso in cui ricorrano due condizioni: 1) la partecipazione all'esercizio di prerogative dei pubblici poteri; 2) la responsabilità per la tutela degli interessi generali dello Stato o di altri enti pubblici.


Un ulteriore rilevante diritto di cui gode il cittadino europeo che ha esercitato la libertà di circolazione sul territorio dell'Unione europea è rappresentato dall'elettorato attivo e passivo sia alle elezioni del Parlamento europeo sia alle elezioni locali del Comune in cui hanno stabilito la loro residenza, disciplinato dall'art. 20, co. 2 lett. 2) TFUE.

L'esercizio di tale diritto è disciplinato dalla Direttiva 1993/109/CE relativa alle modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo per i cittadini dell'Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non sono cittadini, recepita nella l. 3 agosto 1993, n. 483, e dalla Direttiva 1994/80/CE che stabilisce le modalità di esercizio del diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali per i cittadini dell'Unione che risiedono in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza, recepita con il d.lgs. 12 aprile 1996, n. 197.

Per quanto attiene alle elezioni comunali il cittadino europeo, previa iscrizione alle liste elettorali, può esprimere la propria preferenza per il Sindaco, il Consiglio comunale e di circoscrizione e può, altresì candidarvisi, con esclusione delle cariche di Sindaco e Vicesindaco.

Appare evidente come il riconoscimento di tale diritto in capo al cittadino europeo rappresenti uno strumento di integrazione nel tessuto politico nel Paese in cui l'interessato ha stabilito la propria residenza.


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XIII.3. Il ricongiungimento famigliare

I familiari del cittadino europeo hanno il diritto di accompagnarlo o raggiungerlo nel Paese membro in cui si trasferisce. Tale diritto trova il suo fondamento nella volontà di facilitare l'esercizio da parte del cittadino europeo della libertà di circolazione a lui attribuita e di garantire il suo diritto fondamentale all'unità familiare. Ciò rileva, in particolare, con riferimento al familiare avente la cittadinanza di un Paese terzo, il quale, in difetto di una normativa specifica, dovrebbe sottostare alle regole ordinarie previste per l'ingresso ed il soggiorno degli stranieri, spesso particolarmente restrittive.

Da ciò consegue un rapporto di dipendenza del diritto al soggiorno del familiare da quello “primario” in capo al cittadino dell'Unione.

In primo luogo occorre rilevare a quali familiari si estenda il diritto in esame, definiti dal d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 2, co. 1 lett. b):

  1. il coniuge;
  2. il partner in una unione registrata sulla base della normativa di uno dei paesi membri dell'Unione europea;
  3. figli a carico di età inferiore ai 21 anni del cittadino europeo o del coniuge;
  4. ascendenti a carico del cittadino europeo o del coniuge.


Particolare attenzione deve prestarsi al punto 2) della citata norma che indica tra i familiari il partner che abbia contratto con il cittadino europeo un'unione registrata secondo la legislazione di un altro Stato membro, nel caso in cui il Paese membro ospitante equipari tale unione al vincolo matrimoniale. Tale disposizione altro non è che la codificazione di un principio già riconosciuto dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, che nella sentenza Reed (CGCE, 17 aprile 1986, c-59/85, Stato olandese/Ann Florence Reed) aveva escluso il diritto al ricongiungimento del compagno non coniugato da parte della lavoratrice residente in un altro Stato membro, ritenendo di non poter interpretare estensivamente tale diritto, in mancanza di una evoluzione comune in tal senso, statuendo, tuttavia, che, qualora lo Stato membro ospitante riconosca il medesimo diritto ai propri cittadini, questo non può essere rifiutato al cittadino europeo senza configurare una discriminazione basata sulla nazionalità.

Tale soluzione permette, da un lato, di dare piena applicazione al principio di parità di trattamento di cui all'art. 18 TFUE, e dall'altro, di non interferire con le scelte legislative nazionali.

Con l'entrata in vigore della l. n. 76 del 26 maggio 2016 che ha introdotto nel nostro ordinamento le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze registrate ogni questione sul punto appare superata.

Appare, tuttavia, interessante rilevare che prima dell'adozione del citato testo di legge, vi erano state importanti aperture della giurisprudenza nel riconoscere il diritto al soggiorno, ai sensi del d.lgs. 30 del 2007, cit., art. 10, quale coniuge di cittadino europeo anche nel caso di due persone dello stesso sesso che avevano contratto matrimonio in un altro Paese.

In tal caso, infatti, si è ritenuto non rilevante il fatto che la legislazione del Paese membro ospitante non permettesse il matrimonio omosessuale, come nel caso dell'Italia, dovendosi interpretare tale termine non alla luce delle singole legislazioni nazionali, bensì tenendo conto dell'interpretazione che ne viene data nella normativa e nella giurisprudenza europea, con particolare riferimento all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dell'art. 12 della CEDU. In tali termini si era espresso il Tribunale di Reggio Emilia, 13 febbraio 2012, proc. n. 1401/2011, che accoglieva il ricorso avverso il diniego di rilascio della carta di soggiorno per familiari extraeuropei di cittadini europei emesso dalla Questura di Reggio Emilia nei confronti di un cittadino uruguayano che aveva contratto matrimonio con un cittadino italiano in Spagna.

Inoltre, non è infrequente che si verifichino situazioni particolari che coinvolgano familiari del cittadino dell'Unione che non siano previste dalla normativa in esame.

E' tale il caso di un genitore extraeuropeo che abbia a carico un figlio minore cittadino europeo, situazione inversa di quella disciplinata dal d.lgs. n. 30 del 2007, cit, art. 2, co. 1, n. 3), che prevede la qualifica di familiare del solo ascendenti “a carico”.

In merito si devono richiamare le sentenze Chen e Zambrano (CGCE, 19 ottobre 2004, C-200/02, Kunqian Catherine Zhu e Man Lavette Chen/Secretary of State for the Home Department e  CGCE, 08 marzo 2011, C-34/09, Gerardo Ruiz Zambrano/Office national de l’emploi (ONEm)), in occasione delle quali la Corte di Giustizia ha affermato che al genitore extraeuropeo di cittadino europeo deve essere garantito il diritto al soggiorno nel caso in cui il minore disponga dei requisiti utili al soggiorno, quali una assicurazione sanitaria e risorse sufficienti al proprio mantenimento e a quello dei familiari (dimostrabili anche attraverso i redditi dell'altro genitore), e il genitore non sia decaduto dalla potestà genitoriale. In caso contrario il diniego al soggiorno del familiare che ha la custodia del figlio priverebbe automaticamente di qualsiasi effetto utile la cittadinanza europea di quest'ultimo e del nucleo essenziale dei suoi diritti, poiché dovrebbe, attesa la minore età, seguire il genitore nel Paese di origine.

Recentemente la Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi su casi analoghi a quelli evidenziati in cui il genitore extraeuropeo affidatario dei figli minori cittadini europei era gravato da precedenti penali ostativi al suo soggiorno nel Paese europeo ospite. Sulla base dei principi evidenziati nei precedenti arresti giurisprudenziali la Corte di giustizia ha affermato che la tutela del diritto alla libera circolazione dei cittadini europei osta ad una previsione normativa nazionale che preveda l'automatico diniego del titolo di soggiorno nei confronti del padre di minori cittadini europei solo in ragione della sussistenza a suo carico di pregiudizi penali, nel caso in cui tale diniego costringerebbe l'allontanamento dal Paese europeo ospite di tutto il nucleo familiare (CGUE, 13 settembre 2016, C-165/14, Alfredo Réndon Marin/Administacion del Estado)

Con riferimento alle due sentenze sopra richiamate, si evidenzia che in entrambi i casi i minori cittadini europei non avevano esercitato il loro diritto alla libera circolazione, risiedendo entrambi nel Paese di nascita e di cui avevano acquisito la cittadinanza. La Corte di Giustizia, quindi, ha analizzato la questione prescindendo dall'elemento di transnazionalità, esaminando l'istituto della cittadinanza europea come un diritto dotato di una propria autonoma sfera di applicazione. In tal caso, infatti, il riconoscimento del diritto al soggiorno del familiare extraeuropeo del cittadino europeo non discende dalla applicazione della Direttiva 2004/38/CE, ma piuttosto da una interpretazione estensiva dell'art. 20 TFUE, che disciplina la cittadinanza europea. In tali termini, quindi, l'espulsione del familiare extraeuropeo rappresenterebbe una eccessiva e sproporzionata compressione dei diritti del cittadino europeo.

Ai fini dell'ingresso del familiare extraeuropeo del cittadino europeo sul territorio nazionale, a seconda della nazionalità del familiare, potrebbe essere richiesto il possesso di un visto di ingresso da richiedersi alle autorità diplomatiche e consolari italiane, le quali sono tenute a rilasciarlo in via prioritaria e gratuitamente (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 5, co. 3) e devono attenersi alla sola verifica della sussistenza del vincolo familiare. Tali agevolazioni trovano ancora giustificazione nella volontà di non ostacolare in modo eccessivo l'esercizio della libera circolazione dei cittadini europei. Qualora, invece, il familiare extraeuropeo del cittadino europeo sia già titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da un altro Stato membro ai sensi della Direttiva 2004/38/CE, nei suoi confronti sarà richiesto il solo possesso di un passaporto in corso di validità. In tal caso, infatti, la qualità di familiare di cittadino europeo, titolo da cui discende l'applicazione di una disciplina agevolata per la circolazione nel territorio europeo, è già stata oggetto di verifica. 

Al familiare extraeuropeo del cittadino dell'Unione, che risiede da più di tre mesi sul territorio nazionale, ai sensi del d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 10, è rilasciata una carta di soggiorno quinquennale, a fronte della presentazione della documentazione attestante l'identità del richiedente, la qualità di familiare e la regolarità del soggiorno del cittadino europeo (l'attestazione anagrafica).

Sul punto giova evidenziare che non rileva in alcun modo la pregressa regolarità del soggiorno o dell'ingresso del familiare per il quale si chiede il ricongiungimento. In merito si richiama la sentenza Metock, nella quale la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha affermato che la disciplina della Direttiva 2004/38/CE, osta ad una normativa nazionale che imponga che il familiare extraeuropeo di un cittadino dell'Unione abbia preventivamente soggiornato legalmente in un altro Stato membro ovvero che abbia fatto ingresso regolare nel Paese membro in cui ha stabilito la sua residenza il cittadino europeo (CGCE, 25 luglio 2008, C-127/08, Blaise Baheten Metock e altri/Minister for Justice, Equality and Law Reform). Tale disposizione rileva in particolare per i rapporti di coniugio sorti dopo l'esercizio da parte del cittadino europeo del diritto alla libertà di circolazione, ai quali pacificamente si applicano le disposizioni di cui al d.lgs. n. 30 del 2007, cit.

Ai fini del ricongiungimento familiare non è necessaria che vi sia convivenza tra il familiare ricongiunto ed il cittadino dell'Unione. Sul punto la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha affermato che attesa la natura delle norme che regolano tale istituto, il cui fondamento è l'agevolazione della libera circolazione del cittadino europeo, le stesse non possono essere interpretate in modo restrittivo (CGCE, 13 febbraio 1985, C-267/83, Aissatou Diatta/Land Berlino).

Il familiare extraeuropeo del cittadino europeo acquista il diritto al soggiorno permanente a seguito di un soggiorno legale e continuativo di cinque anni (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 14, co. 2).

Il familiare extraeuropeo, al ricorrere di determinate condizioni, può ottenere un diritto al soggiorno autonomo anche in caso di morte del cittadino europeo o di sua partenza dall'Italia, divorzio o annullamento del matrimonio (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., artt. 11 e 12).

Infine, giova evidenziarsi che le norme di cui al d.lgs. n. 30 del 2007, cit. si applicano anche ai familiari extraeuropei di cittadini italiani, in quanto più favorevoli delle disposizioni di cui al Testo Unico Immigrazione (d.lgs. n. 30 del 2007, cit., art. 23).


Approfondimento 1 - La Brexit e gli effetti sulla libera circolazione dei cittadini europei

Il 23 giugno del 2016 nel Regno Unito si è tenuto un referendum in merito alla permanenza del Paese nell'Unione Europea, il cui risultato ha evidenziato una maggioranza della volontà popolare per il “leave”.

Sebbene l’esito del referendum non fosse legalmente vincolante per il governo britannico, nel 2017, il Primo Ministro ha informato il Consiglio Europeo dell’intenzione di voler lasciare l’Unione Europea, attivando la procedura ex art. 50 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) che prevede un periodo di transizione di due anni, prorogabili su volontà delle parti, per permettere la rinegoziazione della posizione del Paese uscente rispetto alla UE.

Negli anni i negoziati sono stati finalizzati alla determinazione di un accordo che permettesse di soddisfare entrambe le parti, regolamentando quanto normalmente era determinato dalla politica e normativa europea (ad es. temi di concorrenza, commercio, dogane).

Tra i vari punti salienti dell’accordo vi è, indubbiamente, la regolamentazione della libera circolazione dei cittadini europei in relazione alla posizione sia dei cittadini britannici che risiedono nei Paesi europei sia dei cittadini europei residenti nel Regno Unito.

L'accordo di recesso dall'UE prevede il mantenimento dei medesimi diritti di soggiorno e circolazione per i cittadini UE nel Regno Unito e per i cittadini inglesi già residenti nei Paesi UE al momento della brexit (termine del 31.12.2020), circostanza che si concretizzerà in misure decise dai singoli Stati membri e dal Regno Unito.

Per quanto attiene all'Italia è stato adottato il d.l. n. 22 del 25 marzo 2019, convertito nella l. n. 41 del 20 maggio 2019. Il predetto decreto prevede il rilascio per i cittadini britannici già iscritti all'anagrafe al momento del recesso (31.12.2020) e per i loro familiari anche non aventi la cittadinanza di un Paese UE, titolari di carta di soggiorno ai sensi del  d.lgs. n. 30 del 2007, art. 10, cit.:

  • del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo ai sensi del d.lgs. 286 del 2008, art. 9, cit. se residenti da più di cinque e se in possesso dei requisiti richiesti dalla normativa;
  • di un permesso di soggiorno con la dicitura "per residenza" della durata di 5 anni, rinnovabile, se residenti da meno di 5 anni o se non ricorrono i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno a tempo indeterminato.
A decorrere dal 01 gennaio 2021 ai cittadini britannici  che intendono fare ingresso in Italia si applicano le disposizioni di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, cit. alla stregua di tutti gli altri cittadini extraeuropei.


Il testo normativo prevede altresì norme in merito al computo degli anni per la presentazione della domanda di concessione cittadinanza per naturalizzazione, stabilendo una equiparazione con i cittadini europei fino al giuramento per le domande pendenti e permettendo la presentazione di nuova domanda a fronte della maturazione del termine dei 4 anni di residenza entro il 31 dicembre 2020.

Vengono, infine, stabilite norme per la tutela del soggiorno di studenti e ricercatori.