comprensione sentenze
Corte Cost., 28 luglio 1995, n. 416
N. 416
SENTENZA 21-28 LUGLIO 1995
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE; Giudici: prof. Vincenzo
CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO,
avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, dell'art. 4, comma 2, dell'art. 6, commi
1, 5, 6 e 7, dell'art. 10, comma 1, e dell'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ricorsi della Regione Emilia-Romagna, della
Regione Siciliana e della Regione Lombardia, notificati il 27 e il 30 gennaio 1995, depositati in
cancelleria il 3 e il 7 febbraio 1995 ed iscritti rispettivamente ai nn. 3, 4 e 5 del registro ricorsi 1995;
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 27 giugno 1995 il Giudice relatore Riccardo Chieppa;
Uditi gli avvocati Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna, Giovanni Pitruzzella per la
Regione Siciliana e Valerio Onida per la Regione Lombardia;
Ritenuto in fatto
1. - Con ricorso ritualmente notificato il 28 gennaio 1995, la Regione Lombardia ha impugnato gli
artt. 3, 4 e 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 recante "Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica", per violazione degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione.
La ricorrente, dopo aver premesso che il quadro normativo statale concernente la disciplina del
servizio sanitario nazionale è evoluto nel senso di un maggiore progressivo coinvolgimento delle regioni
e dei bilanci regionali in ordine alle spese sanitarie, sottolinea che la legge n. 724 del 1994 conterrebbe
disposizioni "del tutto e clamorosamente contrastanti" con la nuova logica normativa. Infatti, da un lato
verrebbe esteso a tutte le aziende sanitarie il vincolo al pareggio di bilancio statuendo che "agli eventuali
disavanzi di gestione, ferma restando la responsabilità delle Unità sanitarie locali, provvedono le regioni
con risorse proprie e con conseguente esonero di interventi finanziari da parte dello Stato" (art. 10,
comma 1, primo periodo, dall'altro si imporrebbero alle regioni "vincoli rigidi" in ordine ai propri
comportamenti programmatori e gestionali e, pertanto, lesivi dell'autonomia regionale. Il ricorso prende
anzitutto in considerazione l'art. 3 il quale stabilisce che le regioni provvedono, entro il termine
perentorio di sei mesi dall'entrata in vigore della legge, alla "disattivazione o alla riconversione" degli
ospedali che non raggiungono, alla data del 30 giugno 1994, la dotazione minima di 120 posti letto. Vi è
una eccezione e concerne gli ospedali specializzati e quelli per i quali la regione abbia già programmato
la strutturazione con dotazione superiore a 120 posti letto. Ad avviso della ricorrente detto disposto viola
le competenze legislative ed amministrative costituzionalmente attribuite alle regioni dagli artt. 117 e
118 della Costituzione, in quanto - lungi dal porre principi fondamentali - conterrebbe una
regolamentazione dettagliata dell'oggetto, del procedimento e di tutte le conseguenze della disposta
disattivazione o riconversione degli ospedali di cui si è più sopra detto. La lesione delle competenze
regionali sarebbe, altresì, confermata dall'ultima parte dell'art. 3, comma 1, il quale stabilendo che "in
relazione a condizioni territoriali particolari, in specie delle aree montane e delle isole minori, nonché
alla densità e distribuzione della popolazione, le regioni possono autorizzare il mantenimento in attività
dei suddetti ospedali", introdurrebbe una sorta di "clausola di salvezza" che, in definitiva, verrebbe a
sancire una competenza regionale del tutto eccezionale e derogatoria e, quindi, lesiva della potestà
legislativa e programmatoria della regione stessa. Estremamente minuziosa sarebbe, altresì, la
regolamentazione del procedimento di disattivazione o riconversione degli ospedali di cui all'art. 3
censurato. Al riguardo si prevede che con decreto del Ministro della sanità, da emanare entro trenta
giorni dalla data di entrata in vigore della legge, vengano precisati i criteri di classificazione degli
ospedali specializzati (esclusi dalla procedura di disattivazione o di riconversione) e che sulla base di tale
decreto la regione pubblichi l'elenco degli ospedali così "risparmiati". Viene, pure, disposto che, in
mancanza di un pronto adempimento da parte della regione, il Consiglio dei ministri, su proposta del
Ministro della sanità, eserciti i poteri sostitutivi. Ad avviso della regione, detti poteri sostitutivi sarebbero
previsti in violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e regioni, nel senso che essi sarebbero
esercitabili "immediatamente" - alla sola condizione dello scadere di un ulteriore termine di trenta giorni
dall'emanazione del decreto del Ministro della sanità più sopra richiamato - senza una previa diffida ad
adempiere. In questa prospettiva i poteri sostitutivi di cui all'art. 3, comma 1, sarebbero unicamente
preordinati a scattare a fronte dell'inadempimento regionale in ordine alla pubblicazione dell'elenco degli
ospedali specializzati e sarebbero, come tali, distinti dai poteri sostitutivi di cui all'art. 3, numero 2, che
sarebbero, invece, preordinati a rimediare ad una "complessiva inerzia regionale" riguardo alla procedura
di disattivazione e riconversione in esame e verrebbero esercitati da commissari ad acta appositamente
nominati, "previo invito alle regioni ad adottare le misure adeguate". Il carattere minuzioso della
disciplina di cui all'art. 3 sarebbe, altresì, ribadito nelle previsioni circa il destino del personale in
esubero a seguito delle effettuate disattivazioni o riconversioni, nonché nella preordinazione delle
trasformazioni di destinazione degli ospedali che viene esplicitamente e primariamente indicata
nell'attivazione di residenze sanitarie assistenziali per anziani non autosufficienti. A ciò si aggiunge,
secondo la ricorrente, che la procedura di disattivazione o riconversione deve essere attivata dalla
regione, prescindendo completamente dai risultati di gestione dell'ospedale e quindi anche nel caso in cui
non vi siano disavanzi, con la conseguenza di vulnerare le potestà programmatorie regionali. Infine e dal
momento che i suddetti vincoli di disattivazione o riconversione non verrebbero imposti a carico della
ospedalità privata, vi sarebbe una evidente disparità di trattamento tra strutture pubbliche e strutture
private. Il ricorso investe anche l'art. 4 della legge n. 724 del 1994, sottolineando che esso dispone, al
comma 1, che la revisione delle dotazioni organiche e i processi di mobilità del personale devono essere
finalizzati all'obiettivo del pieno utilizzo delle strutture pubbliche, secondo le indicazioni del Piano
sanitario nazionale per il triennio 1994-96. Sempre secondo la Regione Lombardia, il comma 2 dello
stesso articolo 4 prevederebbe "in modo del tutto incongruo" - rispetto agli obiettivi elencati nel comma
1 - l'applicazione del divieto di assunzione contenuto nell'art. 22, comma 6, della stessa legge n. 724 del
1994 per il primo semestre del 1995; quanto al secondo semestre, per la copertura dei posti che si
rendono vacanti per cessazione dal servizio verificatasi a partire dal 1 gennaio 1995, viene stabilito che
le regioni possono autorizzare, entro stretti limiti, nuove assunzioni. Detto disposto sarebbe lesivo della
potestà programmatoria della regione e sarebbe altresì, incoerente in quanto, e da un lato, postula, al
comma 1, il potenziamento dei servizi assicurando in particolare l'apertura al pubblico degli stessi "per
un congruo orario settimanale" e, dunque, forse per un orario prolungato rispetto a quanto avviene
attualmente, e, dall'altro, oppone le forti limitazioni ed i rigidi vincoli di cui al comma 2 dello stesso art.
4. Lesivo dell'autonomia finanziaria, di spesa e di bilancio, nonché dell'autonomia programmatoria
regionale sarebbe, altresì, l'art. 6, comma 1, della legge n. 724 del 1994. Detta norma, infatti, stabilendo
per ciascuna regione un "tetto" massimo alla spesa di beni e servizi (la spesa non potrà superare, per
l'anno 1995, l'importo registrato nell'esercizio 1993 ridotto del 18 per cento; per l'anno 1996 lo stesso
importo dovrà essere ridotto del 16 per cento; per l'anno 1997 la riduzione sarà pari al 14 per cento)
imporrebbe forti vincoli alla crescita di una determinata categoria di spese, prescindendo del tutto dalle
scelte programmatorie e di bilancio che dovrebbero essere effettuate dalla regione. Inoltre, il tetto, così
imposto, alle spese sanitarie di beni e servizi farebbe riferimento a "parametri del tutto teorici e astratti"
ed, in quanto tali, lesivi dell'autonomia regionale, anche alla luce di quanto affermato da questa Corte
con la sentenza n. 307 del 1983. Per di più, la circostanza che la identificazione dei suddetti parametri sia
svincolata dai concreti bilanci delle regioni, porterebbe a predisporre parametri di contenimento della
spesa, uguali per tutte le regioni: il che sarebbe fonte di gravi disparità tra regione e regione e tra aziende
sanitarie nel senso che detto disposto penalizzerebbe le regioni e le aziende sanitarie che già negli
esercizi precedenti (e fino a tutto il 1993) abbiano operato una riduzione dei costi relativi a quella singola
voce di spesa (ovvero acquisto di beni e servizi per la sanità) e finirebbe "del tutto incongruamente" con
l'avvantaggiare quelle regioni e quelle aziende sanitarie che non avessero effettuato le dette riduzioni. A
ciò si aggiunge che sulla voce di spesa in questione graverebbero costi che la regione non sarebbe in
grado di controllare (luce, gas, telefono). Oltre ad essere lesiva della autonomia finanziaria, la
disposizione in esame sarebbe pure intimamente contraddittoria e dotata di effetti perversi laddove
venisse applicata. Infatti, il vincolo alle spese per l'acquisto di beni e servizi contrasterebbe con il sistema
di pagamento delle prestazioni sulla base di tariffe predeterminate dalla regione: un aumento delle scelte
degli utenti in favore delle strutture sanitarie pubbliche potrebbe tradursi in un corrispondente aumento
delle spese per beni e servizi, allo scopo di accrescere la qualità e la quantità delle prestazioni erogate
con vantaggio complessivo per l'andamento della spesa sanitaria. Da ultimo, il tetto di spesa di cui all'art.
6, comma 1, sarebbe in "stridente contrasto" con il disposto dell'art. 10, comma 1, il quale stabilisce che
agli eventuali disavanzi di gestione delle Unità sanitarie locali, provvedono le regioni con risorse proprie,
con conseguente esonero di interventi finanziari da parte dello Stato. Ora, secondo la ricorrente, la
circostanza che sul bilancio regionale gravi l'eventuale disavanzo di gestione delle Unità sanitarie,
dovrebbe correlativamente consentire a ciascuna regione, nell'ambito del proprio bilancio, di destinare
liberamente somme ai capitoli di spesa coerenti allo scopo del risanamento, senza i vincoli ed i tetti di
cui all'art. 6, comma 1. La ricorrente Regione Lombardia censura l'art. 6, comma 6, della legge n. 724 del
1994 il quale allargherebbe a dismisura il panorama degli enti erogatori ammessi a far parte del servizio
sanitario nazionale ed in ordine ai quali si esercita la facoltà di scelta del cittadino. Infatti, il diritto
all'accreditamento presso il servizio sanitario nazionale sarebbe esteso nei confronti delle strutture aventi
i requisiti di cui all'art. 8, comma 4, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e opererebbe, comunque, per il
biennio 1995-96 a favore delle strutture erogatrici convenzionate esistenti. Ne conseguirebbe una
"fortissima espansione" dei soggetti erogatori di prestazioni sanitarie, poste a carico della regione, che
rischierebbe di dilatare la spesa che pur si vorrebbe contenere. Infatti, l'art. 6, comma 7, sopprime l'inciso
"sulla base di criteri di integrazione con il servizio pubblico" contenuto nell'art. 8, comma 5, del d.lgs. n.
502 del 1992, con la conseguenza che verrebbe meno il meccanismo per il quale l'utente poteva
rivolgersi alle strutture sanitarie convenzionate solo per quelle prestazioni per le quali le strutture
pubbliche non fossero in grado di soddisfare, entro un termine ragionevole, la sua richiesta di accesso
alle prestazioni. Ad avviso della ricorrente l'abolizione del suddetto criterio di integrazione - pur essendo
preordinato ad accentuare il regime di competizione tra le strutture sanitarie pubbliche e private -
provocherebbe, in realtà, risultati del tutto opposti a quelli perseguiti ovvero al contenimento della spesa
sanitaria in quanto, in detta situazione, la spesa sanitaria complessiva della regione aumenterebbe a tutto
vantaggio delle strutture private "accreditate". Da ultimo la Regione Lombardia rileva che i tetti di spesa
ed i vincoli surrichiamati porrebbero le regioni nelle condizioni peggiori per affrontare la competizione
fra strutture private e pubbliche in quanto essi graverebbero sulle sole strutture pubbliche, viziando in
partenza la pari condizione dei competitori ovvero degli enti erogatori pubblici o privati. Ne deriverebbe
la lesione dell'autonomia regionale (artt. 117, 118 e 119 della Costituzione).
2. - La stessa legge n. 724 del 1994, ed in particolare l'art. 6, commi 1, 5 e 6, e l'art. 10, comma 1,
con ricorso notificato il 27 gennaio 1995, viene impugnata dalla Regione Siciliana (ricorso n. 4 del 1995)
per contrasto con gli artt. 3, 32 e 97 della Costituzione, nonché con gli artt. 17 e 19 dello statuto di
autonomia.
La ricorrente - premesso che, sulla base delle disposizioni censurate, la regione diventerebbe il
soggetto responsabile dei disavanzi di gestione di un servizio sanitario frutto di una decisione legislativa
dello Stato - denuncia il contrasto delle stesse con la potestà legislativa, nonché con l'autonomia
finanziaria garantitale dallo statuto di autonomia (artt. 17 e 19).
Le disposizioni impugnate sarebbero, altresì, lesive del principio di uguaglianza (art. 3 della
Costituzione), e del diritto alla salute (art. 32 della Costituzione) in quanto lo Stato non interverrebbe più
a garantire la uguaglianza delle prestazioni, sicché il diritto alla prestazione sanitaria potrebbe atteggiarsi
diversamente da regione a regione. Infine, le norme censurate violerebbero l'art. 97 della Costituzione in
quanto spezzerebbero il "principio del parallelismo fra responsabilità di disciplina e di controllo e
responsabilità finanziaria", principio affermato nella sentenza n. 355 del 1993 di questa Corte. Il ricorso
investe l'art. 6, commi 1 e 6, con considerazioni analoghe a quelle riportate nel ricorso della Regione
Lombardia. In riferimento agli artt. 6 e 10, comma 1, il ricorso viene proposto sotto il profilo che
imponendo alla regione di provvedere ai disavanzi di gestione anche in relazione a scelte legislative dello
Stato, violerebbero l'art. 19 dello statuto della Regione Siciliana, operando un condizionamento della
finanza regionale. Al riguardo viene, altresì, richiamata la sentenza n. 355 del 1993 di questa Corte, con
la quale si è affermata la irragionevolezza della previsione, concernente l'esonero totale e immediato
dello Stato dal ripiano degli eventuali disavanzi di gestione delle Unità sanitarie locali e delle aziende
ospedaliere, senza una disciplina che renda graduale - sotto il profilo del bilancio regionale - il passaggio
verso il nuovo sistema.
3. - La legge del 23 dicembre 1994, n. 724, viene, altresì, con ricorso notificato il 27 gennaio 1995,
impugnata dalla Regione Emilia-Romagna (Ricorso n. 3 del 1995) la quale censura specificamente l'art.
4, comma 2, l'art. 6, commi 1 e 6 e l'art. 39, perché ritenuti in contrasto con gli artt. 117, 118, 119, 97, 3 e
32 della Costituzione. Anche sull' art. 6, commi 1 e 6, vengono svolte censure analoghe a quelle
formulate dalla Regione Lombardia e dalla Regione Siciliana. In particolare, sull'art. 6, comma 6, il
ricorso rileva che l'abolizione del criterio di integrazione con il servizio pubblico che ha, sino ad oggi,
disciplinato la collaborazione tra strutture pubbliche e private, e la sua sostituzione con la facoltà di
libera scelta da parte dell'assistito comporterebbe in sostanza una duplicazione dei costi delle prestazioni
sanitarie, e quindi uno spreco consistente nella mancata prioritaria utilizzazione delle strutture pubbliche
e nel pagamento, accanto al costo della struttura pubblica, di quella privata; il tutto paradossalmente in
contrasto con la ratio ispiratrice della normativa in esame, volta al contenimento delle suddette spese.
Senza contare che - osserva la ricorrente - lo Stato si era ben guardato dal garantire in termini assoluti
tale libertà di scelta dell'assistito quando era direttamente impegnato sui costi del sistema sanitario.
Un'ulteriore arbitrarietà viene ravvisata nell'automatico accreditamento per il biennio 1995- 1996 delle
strutture già convenzionate o eroganti prestazioni in regime di assistenza indiretta, in quanto esso
opererebbe solo nei confronti di una parte delle strutture private, creando una forma di ingiustificato
privilegio per queste ultime ed una ingiusta penalizzazione per strutture di grandi qualità, che avevano
potuto finora mantenersi anche in assenza del collegamento con il servizio pubblico. Conseguirebbe la
lesione degli artt. 3, 32, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.
4. - Infine la Regione Emilia-Romagna censura l'art. 39 della legge n. 724 del 1994, in quanto
ritenuto in contrasto con gli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione.
Ad avviso della ricorrente la norma censurata, prorogando ed estendendo i termini del condono
edilizio, realizzerebbe un sistema ingiusto e discriminatorio proprio nei confronti dei cittadini rispettosi
delle leggi che - da un lato - si vedrebbero privati di quei beni, che anch'essi avrebbero potuto e voluto
costruire (e che non hanno costruito non potendo ottenere o non avendo ottenuto il permesso); dall'altro
sarebbero costretti ormai, in via permanente, a subire il degrado urbanistico prodotto dalla illegalità
edilizia per il futuro. Ingiusto e discriminatorio sarebbe, altresì, il nuovo condono per il futuro, attesoché
esso tenderebbe a fuoriuscire dalla eccezionalità e singolarità che caratterizza il condono della legge n.
47 del 1985 ed a farsi sistema. Un sistema che precluderebbe l'applicazione anche in futuro delle
sanzioni previste dalla legislazione urbanistica e che, scardinando con la sua reiterazione il sistema della
legalità, violerebbe il principio di uguaglianza dei cittadini producendo, nel contempo, le condizioni per
un ulteriore degrado ambientale e amministrativo. Viene, inoltre, rilevato che la ratio ispiratrice delle
leggi di condono altro non è che la necessità di incrementare il gettito delle finanze dello Stato, in
perdurante deficit, attraverso lo "scambio" della clemenza contro il danaro. La ricorrente si duole, altresì,
del fatto che, a differenza di altri condoni, quello edilizio operi su beni e interessi indisponibili e
costituzionalmente tutelati della comunità, i quali non possono essere "scambiati" con denaro senza ferire
e sconvolgere l'assetto dei valori costituzionalmente garantiti. In proposito si richiama la sentenza n. 369
del 1988 di questa Corte, con la quale si afferma che il condono può giustificarsi in circostanze
eccezionali, quando il legislatore intenda imprimere un nuovo orientamento alla disciplina di una materia
e sia perciò quasi "necessitato, nel cancellare il passato, ad incidere sulle sanzioni penali poste a
rafforzamento di quelle extra-penali".
Nulla di tutto questo sarebbe riscontrabile nel nuovo condono. Infatti se il condono della legge n. 47
del 1985 poté considerarsi legittimo solo in quanto "eccezionale" e "singolare", ciò non potrebbe certo
valere per il nuovo condono che contraddirebbe, senza mutare sul piano generale, i principi e i valori
della normativa urbanistica, convertendosi in norma di ingiustificato privilegio e insieme strumento di
produzione di risorse statali sostitutive della imposizione fiscale, tale essendo secondo la ricorrente, il
principio informatore stesso del condono edilizio.
Ne deriverebbe la lesione dei principi costituzionali surricordati (artt. 3, 97 e 117 della Costituzione)
nonché la lesione dei principi fondamentali dello Stato di diritto.
5. - Si è costituito in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili o comunque
infondati. In ordine alla inammissibilità l'Avvocatura generale dello Stato rileva che le censure svolte
dalle ricorrenti non avrebbero alcuna attinenza a lesioni della sfera di attribuzioni regionali, sicché
mancherebbe il presupposto legittimante il ricorso in via principale delle regioni, secondo quanto statuito
dalla sentenza n. 302 del 1988 di questa Corte. In secondo luogo le regioni difetterebbero di interesse ad
impugnare leggi statali che incidono su materie rientranti nella competenza regionale, ma sulle quali esse
non abbiano ancora legiferato.
Sul merito l'Avvocatura osserva preliminarmente che tutte le disposizioni censurate sono preordinate
a ridurre la spesa pubblica ovvero ad assicurare il successo della manovra di risanamento della finanza
pubblica per il triennio 1995-1997 attraverso l'urgente contenimento del "perdurante" ed anzi
"notevolmente accresciuto" disavanzo della spesa pubblica. L'Avvocatura - richiama i precedenti di
questa Corte posti dalle sentenze n. 391 del 1990 e n. 356 del 1992 e afferma che si tratterebbe di
"misure necessitate" anche per corrispondere alle richieste delle autorità comunitarie.
Ciò detto in via generale, l'Avvocatura esamina le censure concernenti le singole disposizioni.
In particolare - in ordine all'art. 3, commi 1, 2 e 3, in materia di disattivazione e riconversione di
ospedali - la parte resistente osserva che la norma censurata è preordinata a razionalizzare il modello
organizzativo delle strutture ospedaliere con carattere di generalità su tutto il territorio nazionale al fine
di evitare "gli sprechi di risorse" nonché "ingiustificate sacche di privilegio locale" del tutto
incompatibili con l'interesse nazionale che, nell'attuale difficile situazione della finanza pubblica, non
può che concretarsi nella ottimale utilizzazione delle risorse disponibili. D'altro canto, secondo
l'Avvocatura, il ruolo delle regioni verrebbe comunque salvaguardato nella normativa in esame, posto
che in relazione a condizioni territoriali particolari nonché alla densità e alla distribuzione della
popolazione, verrebbe pur sempre attribuito alle regioni un potere di apprezzamento che, se positivo,
consentirebbe il mantenimento in attività delle predette strutture, salvaguardando, altresì, il diritto alla
salute come interesse fondamentale della collettività. Quanto ai commi 2 e 3 del medesimo art. 3,
l'Avvocatura rileva che si tratta di norme di dettaglio, peraltro, consequenziali agli obblighi stabiliti dal
precedente comma ed insieme preordinate al perseguimento - nel rispetto del principio di leale
collaborazione fra lo Stato e le regioni - degli obiettivi posti dalla legge. In ordine all'art. 4, concernente
le limitazioni all'assunzione di personale, si rileva che la norma censurata risponde al principio di
omogeneizzazione delle limitazioni del personale nel settore pubblico, facendo così parte integrante della
manovra economico-finanziaria, nel rispetto degli indirizzi dichiarati nel Documento di programmazione
economico-finanziaria per l'anno 1995. Si sottolinea, altresì, che le esigenze di contenimento della spesa
pubblica non consentono deroghe, tanto meno nel settore della sanità, nel quale l'incidenza della spesa
per il personale avrebbe assunto, nell'ambito del disavanzo complessivo delle Unità sanitarie locali,
livelli "considerevoli".
L'Avvocatura sottolinea, altresì, che le regioni avrebbero disatteso le indicazioni contenute nella
legge n. 412 del 1991 (artt. 4 e 2) volte a fornire - nel rispetto del potere programmatorio regionale - utili
strumenti per ristrutturare la rete ospedaliera e attivare le conseguenti necessarie procedure di mobilità.
Sicché i vincoli alla assunzione di personale, da un lato, non interferirebbero con processi di
ristrutturazione già attivati, come lamentato da alcune regioni, dall'altro, e quanto agli obiettivi posti
dall'art. 4, comma 1, e concernenti il potenziamento del servizio pubblico, si potrebbe, comunque, far
leva sul concomitante blocco dei pensionamenti anticipati fino al 30 giugno 1995, secondo quanto
stabilito dall'art. 13 della medesima legge n. 724 del 1994.
Per quel che concerne l'art. 6, comma 1, che pone tetti massimi di spesa regionale, rapportati all'anno
1993, l'Avvocatura rileva, ancora una volta, che si tratta di limiti inscrivibili nella manovra di
risanamento della finanza pubblica che hanno interessato tutte le amministrazioni dello Stato ai sensi
dell'art. 46 della legge n. 724 del 1994.
Né la scelta dell'anno 1993, come anno di riferimento, sarebbe irrazionale in quanto rapportata alle
disponibilità per detto anno di dati certi e monitorati, anche a seguito di verifica effettuata a livello
centrale in contraddittorio con le regioni.
A ciò si aggiunge che le spese, per beni e servizi sanitari nel 1993, avrebbero superato
"notevolmente" il limite dell'andamento generale dei prezzi.
Sul comma 5 dell'art. 6, censurato dalla sola Regione Siciliana si rileva che le misure in esso previste
sono rivolte a razionalizzare la recente disciplina di principio senza stravolgere le linee ispiratrici della
riforma sanitaria. Per quanto concerne i successivi commi 6 e 7, ritiene l'Avvocatura generale dello Stato
che altrettanto infondate siano le censure delle ricorrenti, posto che per il biennio 1995-96
l'accreditamento opererebbe "unicamente" nei confronti dei soggetti già convenzionati con il servizio
sanitario nazionale che accettino il sistema della remunerazione sulla base delle tariffe determinate dalla
regione. Il che escluderebbe gli sprechi o comunque le dilatazioni della spesa sanitaria denunciate dalle
ricorrenti ed insieme sarebbe inteso a realizzare, senza violare l'autonomia regionale ed il diritto alla
salute, una "sana competitività" tra il sistema privato e quello pubblico. Del resto, l'aggravio di spesa
denunciato dalle ricorrenti sarebbe del tutto ipotetico e, pertanto, inconsistente. Sul comma 10 censurato
dalla Regione Siciliana, l'Avvocatura generale dello Stato rileva che l'esonero dell'intervento finanziario
dello Stato in ordine agli eventuali disavanzi di gestione concerne i "disavanzi che dovessero prodursi
nonostante le regole poste dalla nuova riforma sanitaria e dalle specifiche norme limitatrici della spesa",
introdotte con la legge n. 724 del 1994, sicché singolare ed ingiustificata sarebbe la pretesa di "una piena
irresponsabilità regionale sotto il profilo finanziario, nel governo della spesa pubblica". Per quanto
concerne l'art. 39 della legge n. 724 del 1994, impugnato dalla sola Regione Emilia- Romagna,
l'Avvocatura generale dello Stato rileva che la normativa censurata avente "carattere di estrema specialità
ed eccezionalità" porrebbe un "rimedio definitivo" a situazioni derivanti, in via generale, dalla mancata
attuazione da parte delle regioni di provvedimenti di prevenzione e di repressione del fenomeno
dell'abusivismo: il tutto inserito nella manovra di risanamento della finanza pubblica posta in essere dalla
legge n. 724 del 1994 e destinata ad essere attuata non solo con misure di contenimento delle spese, ma
anche con misure di acquisizione di nuove e maggiori entrate.
Quanto alla ratio della disposizione censurata, l'Avvocatura sottolinea che il legislatore nazionale ha
inteso sanare abusi generalizzati e non regolarizzabili mediante il ripristino dello status quo ante, per
intervenute modificazioni irreversibili.
In ordine alle lamentate disparità che - con il condono - si verrebbero a perpetrare nei confronti dei
cittadini onesti, l'Avvocatura rileva che vi sarebbe anzitutto la "necessità di dare una risposta adeguata al
fenomeno dell'abusivismo".
Da ultimo si osserva che il contenuto dell'attuale condono sarebbe in sintonia con quello previsto
dalla legge n. 47 del 1985 che ha superato il vaglio di costituzionalità.
Considerato in diritto
1. - Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei giudizi stante la evidente connessione
oggettiva dei ricorsi in relazione alla coincidenza della legge statale impugnata e alla prospettazione di
questioni in buona parte identiche anche nei parametri di costituzionalità, ovvero strettamente
interdipendenti o complementari.
Le eccezioni di inammissibilità proposte dall'Avvocatura generale dello Stato sotto il profilo che le
censure non avrebbero attinenza a lesioni della sfera di attribuzioni regionali (con richiamo alla sentenza
n. 302 del 1988) sono prive di fondamento, in quanto i ricorsi propongono questioni relative a norme che
incidono direttamente - secondo la prospettazione dei motivi - sulle attribuzioni regionali, imponendo
una serie di procedure e di oneri aventi possibilità di conseguenze non solo organizzatorie, ma anche
finanziarie con riferimento a parametri costituzionali attinenti proprio alla sfera di attribuzioni e
all'autonomia regionale. Né può essere accolta la eccezione di difetto di interesse, proposta sempre dalla
difesa dello Stato, in quanto sulle materie rientranti nella competenza regionale non vi sarebbe stato un
intervento legislativo regionale, essendo indubitabile la sussistenza di un interesse delle regioni a
rimuovere norme che sono destinate ad operare in modo inderogabile (sentenza n. 355 del 1993), anche
nelle regioni che propongono l'impugnativa, con effetti duraturi, che comunque non possono essere
sostanzialmente modificati da eventuali successivi interventi legislativi regionali, attesa la natura degli
interventi di finanza pubblica in condizioni di emergenza e le giustificazioni del riordino sanitario a
cominciare dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordinamento della disciplina in materia
sanitaria a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).
2. - Passando al merito delle censure proposte, la prima questione (sottoposta con il ricorso della
Regione Lombardia) riguarda l'art. 3 della legge 30 dicembre 1994, n. 724, sotto il profilo che, stabilendo
al comma 1 che le regioni provvedono alla disattivazione o alla riconversione degli ospedali, che non
raggiungono alla data del 30 giugno 1994 la dotazione minima di 120 posti letto e altresì, nei successivi
commi 3 e 4, il procedimento e le conseguenze della disposta disattivazione o riconversione degli
ospedali di cui al comma 1, con disposizioni estremamente dettagliate e con applicazione delle procedure
indipendentemente dai risultati di gestione ed anche in mancanza di disavanzi, violerebbe gli artt. 117,
118 e 119 della Costituzione, per la conseguente compressione delle competenze regionali in materia di
sanità (competenza legislativa, amministrativa e programmatoria). La questione è priva di fondamento,
in quanto le potestà regionali sono ampiamente salvaguardate dalla facoltà attribuita alle regioni di
autorizzare il mantenimento in attività dei suddetti ospedali (da disattivare o convertire) "in relazione a
condizioni territoriali particolari, in specie delle aree montane e delle isole minori, ed alla densità e
distribuzione della popolazione". In altri termini le regioni, con una valutazione ampiamente
discrezionale, conseguentemente con obbligo di specifica motivazione purché correlata a condizioni
territoriali particolari (rispetto alle quali le condizioni delle aree montane e delle isole minori
costituiscono solo un aspetto speciale che può essere preso in considerazione accanto ad altri) o a profili
attinenti alla popolazione (densità e distribuzione con riferimento al bacino di utenza), possono
disattendere la previsione generale ed astratta di disattivazione o riconversione. Ovviamente, trattandosi
di disposizione inserita in legge finanziaria e nella logica di razionalizzazione della spesa pubblica e di
contenimento del disavanzo (in logica connessione con l'art. 18 della legge 24 dicembre 1993, n. 537
relativo alla dotazione media dei posti letto e con il comma 9 dello stesso art. 3 della legge n. 724 del
1994, con tasso minimo di occupazione dei posti letto), l'interprete deve necessariamente dare al
meccanismo della facoltà derogatoria di scelta di mantenimento della struttura ospedaliera da parte della
regione, un significato ed una valenza anche economico-finanziaria. Di conseguenza la valutazione della
regione deve riguardare anche gli effetti finanziari del mantenimento di un singolo ospedale, sia pure in
un quadro territoriale, che non può essere circoscritto alle difficoltà dei trasporti e delle comunicazioni di
particolari zone (montane o isole minori) o alle situazioni degli insediamenti della popolazione, ma deve
riguardare necessariamente l'obiettivo della tutela della salute in bilanciamento con il valore
dell'equilibrio finanziario, presupposto della continuità dell'intervento pubblico nel settore (il dissesto
ulteriore e perdurante del sistema porrebbe in pericolo la stessa ulteriore azione pubblica di tutela della
salute). Giova sottolineare che l'anzidetta disposizione deve essere interpretata nel quadro complessivo
della linea fondamentale del nuovo assetto del settore sanitario, che crea una serie di responsabilità
(argomentando dagli articoli 6, comma 5 - che modifica l'art. 4 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 come
modificato dal d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517 - e 10, della legge 23 dicembre 1994, n. 724) a vari livelli,
con esonero di interventi finanziari dello Stato oltre quelli programmati - salvo quanto verrà appresso
specificato - in tutti i casi di disavanzi di gestione di istituzioni del settore, ormai configurate come vere e
proprie aziende (v. d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517, artt. 4 e 5 modificativi degli artt. 3 e 4 del d.lgs. 30
dicembre 1992, n. 502; v. inoltre il d.P.R. 1 marzo 1994: "Approvazione del Piano sanitario nazionale
per il triennio 1994-1996"). Di modo che le conseguenze di eventuali disavanzi per effetto esclusivo o
determinante delle scelte della regione nel mantenimento di singoli ospedali, destinati alla soppressione,
secondo i principi fissati dalla legge in esame, sulla base di una valutazione di dimensione ottimale e di
economia di scala, devono restare a carico della stessa regione, che ha disposto il mantenimento.
Pertanto, tale profilo dell'equilibrio finanziario e delle conseguenze di eventuali disavanzi deve
necessariamente essere valutato dalla regione, con obbligo di indicare la copertura mediante risorse
proprie in tutti i casi in cui le entrate dell'ente e le assegnazioni di finanziamento sui vari fondi non siano
sufficienti a coprire l'onere nel complesso (sentenze n. 355 del 1993; n. 427 e n. 352 del 1992; n. 177 del
1988).
3. - Il secondo profilo di ricorso relativo all'art. 3, comma 1, della anzidetta legge 30 dicembre 1994,
n. 724, riguarda la previsione di poteri sostitutivi unicamente preordinati (e quindi distinti da quelli di cui
al comma 2) all'inadempimento regionale in ordine alla pubblicazione dell'elenco degli ospedali
specializzati: detti poteri sostitutivi sarebbero - secondo il ricorso - esercitabili immediatamente allo
scadere di un termine di trenta giorni dall'emanazione del decreto del Ministro della sanità contenente i
criteri di classificazione degli ospedali specializzati (in quanto tali esclusi dal limite minimo di 120 posti
letto) senza una previa diffida ad adempiere, in violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e
regioni (ricorso della Regione Lombardia). Il motivo è privo di fondamento, in quanto si basa su un
presupposto non corrispondente ad una corretta interpretazione della norma impugnata (art. 3), che deve
essere considerata in modo unitario (commi 1 e 2) in ordine all'esercizio dei poteri statali sostitutivi, per
quanto riguarda la procedura del "previo invito alle regioni", essendovi un collegamento testuale del
comma 2 ai "provvedimenti di cui al comma 1", senza alcuna distinzione tra quelli relativi alla
pubblicazione dell'elenco regionale degli ospedali specializzati (comma 1, secondo periodo) e quelli
relativi alla disattivazione o alla riconversione o al mantenimento degli ospedali con posti letto inferiori
alla dotazione minima di 120 (comma 1, primo ed ultimo periodo). L'interprete, infatti, di fronte ad una
possibile pluralità di interpretazioni deve preferire quella conforme ai principi costituzionali applicabili,
nella specie quelli relativi alla leale collaborazione tra Stato e regioni, per cui "il previo invito" alle
regioni deve intendersi riferito a tutti i provvedimenti del comma 1, ancorché le rilevazioni ufficiali del
sistema informativo sanitario (che devono essere poste a base dei provvedimenti da adottare) si attaglino,
in via normale, meglio a provvedimenti relativi agli ospedali per quanto attiene alla dotazione di posti
letto.
4. - La terza questione proposta riguarda l'art. 4, comma 2, sempre della legge 23 dicembre 1994, n.
724, nella parte in cui dispone il divieto di assunzioni di personale per il primo semestre del 1995,
nonché il divieto parziale per il secondo semestre del 1995, in quanto vincolerebbe l'assunzione del
personale a limitazioni rigide e dettagliate - e per di più del tutto disancorate da parametri obiettivi -
sottraendola alla programmazione e alle determinazioni regionali, con pretesa violazione dell'autonomia
regionale garantita dagli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione (ricorsi delle Regioni Lombardia ed
Emilia- Romagna), nonché del principio di buon andamento della amministrazione (art. 97 della
Costituzione) (ricorso della Regione Emilia-Romagna). Innanzitutto la norma del primo periodo dell'art.
4, comma 2 anzidetto, è collegata al temporaneo (semestrale) divieto di assumere personale di ruolo ed a
tempo determinato di cui al successivo art. 22, comma 6, applicabile a tutte le amministrazioni pubbliche
di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, per esigenze straordinarie di contenimento
della spesa pubblica. L'art. 4 citato contiene un divieto assoluto per le categorie anzidette (personale di
ruolo e a tempo indeterminato), fissato in modo secco per il primo semestre dell'anno 1995. D'altro canto
la verifica dei carichi di lavoro è condizione per poter procedere alle assunzioni consentite con particolari
limiti quantitativi e procedurali nel secondo semestre del 1995 (art. 4, comma 2, secondo periodo), dopo
taluni adempimenti necessariamente consequenziali alla disattivazione e riconversione degli ospedali e
agli accorpamenti e riorganizzazioni di strutture e servizi da parte delle Unità sanitarie locali e delle
aziende ospedaliere (art. 4, comma 2, terzo periodo). Così configurati il divieto transitorio e temporaneo
(c.d. blocco di assunzioni) e le successive limitazioni di assunzioni, ai fini della infondatezza delle
questioni proposte, è sufficiente il richiamo alla giurisprudenza della Corte in ordine alla legittimità del
blocco delle assunzioni, quando si tratti di misure temporanee preordinate ad instaurare un regime
transitorio in attesa dell'attuazione della riforma sanitaria o in vista di un riassetto generale del settore
che presuppone l'indicizzazione delle effettive esigenze e la razionalizzazione organizzativa (sentenze n.
610 del 1988; n. 245 del 1984; n. 307 del 1983). Inoltre, occorre tenere conto che la stessa legge n. 724
del 1994 comprende una serie di ulteriori misure innovative del sistema sanitario quali la disattivazione o
riconversione degli ospedali con dotazione di posti letto inferiore alla minima prevista (art. 3, comma 1),
in correlazione alla previsione di tasso minimo di occupazione dei posti stessi (art. 3, comma 9); la
disattivazione dei servizi direttamente gestiti in caso di affidamento a terzi in base ad appalto o altri
sistemi (art 6, comma 4); la attivazione di residenze sanitarie assistenziali con possibilità di assorbimento
di personale (art. 3, comma 4); l'obiettivo del pieno utilizzo delle strutture pubbliche (art. 4, comma 1); il
nuovo sistema graduale di finanziamento con rilevanza del profilo di convenienza delle prestazioni da
soddisfare nella sede pubblica mediante programmazione e contrattazione (art. 6, comma 5); il nuovo
sistema di responsabilità per i disavanzi di gestione (art. 10); la mobilità per il personale in esubero (art.
3, comma 3). Rispetto alle anzidette previsioni resta rafforzata l'esigenza di blocco temporaneo di
assunzioni in attesa di adempimenti, in quanto altrimenti le finalità di contenimento della spesa
rischierebbero di essere facilmente eluse.
5. - La quarta questione sottoposta all'esame ha per oggetto l'art. 6, comma 1, nella parte in cui
stabilisce, per ciascuna regione, un "tetto" massimo alla spesa di beni e servizi per gli anni 1995, 1996 e
1997 calcolato mediante una riduzione a percentuale decrescente rispetto all'importo registrato nel 1993,
assoggettando le regioni a rigide limitazioni in ordine agli anzidetti acquisti, con asserita violazione
dell'autonomia legislativa, amministrativa e programmatoria regionale (ricorso della Regione Lombardia
e della Regione Emilia-Romagna), nonché dell'autonomia finanziaria (in quanto detti "tetti" prescindono
dai concreti bilanci regionali) (art. 119 della Costituzione) (ricorso della Regione Lombardia). La stessa
norma viene censurata specificatamente anche sul punto che i vincoli alle anzidette spese in modo
generalizzato, e senza operare alcuna distinzione tra i diversi beni e servizi, violerebbero la speciale
autonomia regionale garantita dagli artt. 17 e 19 dello statuto della Regione Siciliana, nonché gli articoli
3, sotto il profilo della irrazionalità, e 32 della Costituzione (ricorso della Regione Siciliana), l'art. 97
della Costituzione sotto il profilo della incongruità di detto disposto con il sistema di pagamento a tariffa
delle aziende sanitarie ed altresì con l'obbligo di ripianamento dei disavanzi, in quanto detto limite
generalizzato creerebbe ostacoli ingiustificati alla erogazione di un servizio sanitario efficiente (ricorso
della Regione Siciliana), penalizzando le regioni che hanno attuato una politica di riduzione dei costi
proprio con riguardo a quella voce di spesa (ricorso della Regione Emilia-Romagna). Ai fini della
dimostrazione della infondatezza delle censure valgono i richiami alla giurisprudenza della Corte in
ordine al blocco delle assunzioni (sentenze surrichiamate) e alla legittimità di misure "urgenti",
"provvisorie" e "volte al contenimento del disavanzo pubblico" (sentenze n. 222 del 1994; n. 357 e n.
128 del 1993; n. 356 del 1992), nonché sulla legittimità di disposizioni di dettaglio in "rapporto di
coessenzialità e di necessaria integrazione" con le norme di principio e pertanto inderogabili (sentenza n.
355 del 1993) e sulla legittimità degli interventi di contenimento della spesa sanitaria (sentenze n. 355
del 1993 e n. 357 del 1993). Infatti la norma impugnata deve essere qualificata come intervento
eccezionale e temporaneo, in un quadro finanziario di emergenza, inserito in una azione complessiva, a
carattere generalizzato, volta a contenere il disavanzo pubblico per ridurre la spesa pubblica in pluralità
di settori; anche le regioni devono essere coinvolte nell'opera di risanamento della finanza pubblica che
"richiede un impegno solidale di tutti gli enti territoriali erogatori di spesa, di fronte al quale la garanzia
costituzionale dell'autonomia finanziaria delle regioni non può fungere da impropria giustificazione per
una simile esenzione" (sentenze n. 128 del 1993 e n. 222 del 1994). La finalità, anche nella presente
legge, perseguita dal Governo e dal Parlamento, di contenere il perdurante disavanzo della spesa
pubblica (aggravata dalla persistenza nello specifico settore sanitario) giustifica l'adozione di misure del
genere attraverso una manovra complessiva di riduzione della spesa in tutti i settori e con specifico
riferimento alla spesa sanitaria, mediante misure che incidono su tutti gli enti di autonomia a statuto
speciale e ordinario (sentenze n. 357 del 1993 e n. 356 del 1992). Giova, infine, sottolineare che i limiti
di spesa (meglio riduzioni globali di spesa) per l'acquisto di beni e servizi sono posti globalmente a
livello regionale in previsione complessiva, in modo da consentire compensazioni nell'ambito regionale e
tra i diversi tipi di beni e servizi. Di conseguenza una equilibrata politica di programmazione regionale
basata sulla convenienza della soddisfazione nella "sede pubblica" delle necessità di prestazioni (art. 6,
comma 5), integrata con l'obiettivo di un ottimale e pieno utilizzo delle strutture pubbliche (art. 4,
comma 1), può consentire - in una valutazione non irrazionale del legislatore - economie di spesa, senza
mettere a rischio l'erogazione di un servizio sanitario efficiente, tenuto conto dell'enorme dilatazione
della spesa negli ultimi anni e della entità degli acquisti di beni e servizi, tali da consentire una pur
limitata elasticità complessiva in ambito delle singole regioni. Quanto ai profili di ricorso interdipendenti
con le modalità di finanziamento e con il sistema di pagamento a tariffa occorre sottolineare che il
sistema di cui all'art. 6, comma 5, surrichiamato ha carattere temporaneo, essendo valido per il 1995,
mentre dovrà essere progressivamente superato nell'arco di un triennio al termine del quale diverrà
esclusivo il sistema di remunerazione a prestazione degli erogatori pubblici e privati.
6. - Un esame complessivamente unitario deve essere effettuato per i gruppi di questioni riguardanti
l'art. 6, commi 5, 6 e 7, e l'art. 10, comma 1, relativi alle modalità di finanziamento, al sistema di
accreditamento e alla facoltà di libero accesso e scelta da parte dell'utente delle strutture pubbliche e
private, con riflessi sull'organizzazione e sulla spesa sanitaria, nonché al connesso problema dell'onere di
ripiano dei disavanzi di gestione, in quanto posti a carico delle regioni anche in relazione a scelte
legislative statali (ricorso della Regione Siciliana: art. 6, comma 5, in relazione agli artt. 17 e 19 dello
statuto della Regione Siciliana, artt. 3 e 32 della Costituzione; ricorso della Regione Emilia-Romagna:
art. 6, comma 6, in relazione agli artt. 3, 32, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione; ricorso della Regione
Lombardia, ricorso della Regione Emilia- Romagna, ricorso della Regione Siciliana: art, 6, comma 6, in
relazione agli artt. 117 e 118 della Costituzione, nonché agli artt. 119 della Costituzione e 17, e 19 dello
statuto della Regione Siciliana, limitatamente al ricorso della Regione Siciliana; ricorso della Regione
Lombardia: art. 6, comma 7, in relazione agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione; ricorso della
Regione Siciliana: art. 10, comma 1, in relazione all'art. 19 dello statuto di autonomia).
6.1. - In ordine al sistema della utilizzazione a scelta dell'utente delle strutture pubbliche e private e
del finanziamento delle aziende sanitarie deve essere preliminarmente sottolineato che il sistema
dell'accreditamento non altera, di per sé, gli equilibri attualmente esistenti, né incide, scavalcandoli, sui
poteri amministrativi regionali: infatti l'accreditamento è una operazione da parte di una autorità o
istituzione (nella specie regione), con la quale si riconosce il possesso da parte di un soggetto o di un
organismo di prescritti specifici requisiti (c.d. standard di qualificazione) e si risolve, come nella
fattispecie, in iscrizione in elenco, da cui possono attingere per l'utilizzazione, altri soggetti
(assistiti-utenti delle prestazioni sanitarie). Viene riconosciuto un "diritto all'accreditamento delle
strutture in possesso dei requisiti di cui all'art. 8, comma 4, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e
successive modificazioni", escludendo in radice una scelta ampiamente discrezionale ed ancorando
l'accreditamento al possesso di requisiti prestabiliti (strutturali, tecnologici e organizzativi minimi, a
tutela della qualità e della affidabilità del servizio-prestazioni, in modo uniforme a livello nazionale per
strutture erogatrici), stabiliti con atto di indirizzo e coordinamento emanato di intesa con la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome (art. 6, comma 6, della legge n.
724 del 1994; art. 8, comma 4, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502). In via transitoria per il biennio
1995-1996 l'accreditamento avviene automaticamente (come forma di conversione del rapporto in atto,
ma sempre a seguito di procedimento regionale, comportante ricognizione e verifica) per gli attuali
soggetti (pubblici e privati) che forniscono le prestazioni (sulla base di preesistenti determinazioni
regionali), cioè oltre le strutture pubbliche e i soggetti eroganti le prestazioni in base a convenzioni o
eroganti prestazioni ad alta specialità in regime di assistenza indiretta, regolata da leggi regionali alla
data di entrata in vigore del citato d.lgs n. 502 del 1992, all'unica condizione della accettazione del
sistema (nuovo) della remunerazione a prestazione sulla base di tariffe. L'accreditamento, una volta
effettuato da organo regionale, non esclude, ma anzi presuppone il potere-dovere della regione di
svolgere i controlli e le verifiche che i soggetti accreditati permangano "effettivamente in possesso dei
requisiti previsti dalla normativa vigente" ed osservino l'obbligo assunto di "accettare il sistema della
remunerazione a prestazione". Infatti il potere di controllo e la verifica da parte della regione persistono
in quanto le anzidette due condizioni sono il presupposto necessario della facoltà di libera scelta da parte
dell'assistito (art. 6, comma 6). Inoltre l'accreditamento, come ogni operazione-procedimento di autorità
amministrativa consistente in qualificazione e in riconoscimento (certificazione e garanzia) del possesso
di specifici requisiti con effetti di natura continuativa (nella specie iscrizione in elenco che dà facoltà
permanente per altri di scegliere il soggetto erogatore delle prestazioni), resta sottoposto a tutti i poteri di
autotutela e di verifica della medesima autorità amministrativa (regione), dovendo questa tenere conto
anche di fatti, situazioni e disposizioni sopravvenute rispetto alla fonte iniziale del rapporto. Anzi
l'esercizio di tali poteri costituisce preciso obbligo della regione, trattandosi di requisiti minimi
(condizioni essenziali per l'ammissibilità di prestazioni), la cui mancanza può costituire sia pericolo per
la salute degli assistiti e per gli obiettivi delle prestazioni sanitarie, sia fonte di danno patrimoniale (le
tariffe, specie se a prestazione, presuppongono un livello minimo strutturale, tecnologico ed
organizzativo, costituente componente del calcolo). Né il sistema porta ad escludere che quelle regioni,
che si preoccupano di non penalizzare strutture private di grande qualità rimaste finora estranee al
sistema pubblico, nella loro autonomia organizzativa e normativa, possano provvedere anche
immediatamente ad aggiornare gli accreditamenti (una volta applicato il sistema) procedendo ad istruire
le domande nuove o quelle convertite relative a precedenti procedure di convenzionamento non ancora
definite, con l'unico obbligo di accertamento del possesso dei requisiti previsti e dell'accettazione del
sistema di remunerazione a prestazione su base di apposite tariffe, non essendovi alcuna preclusione
dalle norme denunciate.
6.2. - Il sistema anzidetto, neppure se collegato al pagamento a prestazione secondo tariffa o a
meccanismi di tetto massimo di spesa o di personale, può costituire violazione dell'art. 97 della
Costituzione nei sensi denunciati (per i profili che incidono sulla sfera regionale) perché, se
correttamente attuato secondo principi di economicità e di mercato e con una responsabile collaborazione
e programmazione organizzativa, non crea ostacoli alla erogazione da parte della regione di un servizio
sanitario efficiente. Anzi il nuovo sistema, contenente prevalentemente prescrizioni di principio, lascia
alle regioni sufficiente margine di scelta nell'ambito dell'autonomia caratterizzata dalla responsabilità e
capacità di spesa con i propri fondi e risorse non derivate (il principio ha valore di reciprocità ed è quindi
applicabile, come appresso specificato, anche nei confronti dello Stato) e può contribuire - in una scelta
del legislatore statale non irragionevole - a rimuovere o attenuare alcune delle situazioni esistenti di
carenza di effettiva e completa copertura sanitaria del cittadino, correlata a ormai croniche situazioni di
squilibri finanziari, che rischiano di mettere in crisi la stessa sopravvivenza di un servizio sanitario con
un minimo indispensabile di funzionalità.
6.3. - La libertà di scegliere da parte dell'assistito chi chiamare a fornire le prestazioni sanitarie non
comporta, affatto, una libertà sull' an e sull'esigenza delle prestazioni, in quanto permane (così come
disciplinato in precedenza dall'art. 8, comma 5, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, che già contemplava,
sia nel testo originario, sia in quello risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 9 del d.lgs. 7 dicembre
1993, n. 517, la previsione di "appositi rapporti fondati sulla corresponsione di un corrispettivo
predeterminato a fronte della prestazione", ritenuti compatibili con il sistema di libera scelta
dell'assistito, confermato anche dall'art. 15 del d.lgs n. 517 del 1993, modificativo dell'art. 14, comma 6,
del d.lgs. n. 502 del 1992) il principio essenziale che l'erogazione delle prestazioni, soggette a scelta (da
parte dell'utente-assistito) della struttura o dei professionisti eroganti, è "subordinata all'apposita
prescrizione, proposta o richiesta compilata su modulario del servizio sanitario nazionale dal medico di
fiducia dell'interessato" (v. ora art. 6, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724). Permangono
pertanto tutti i poteri di controllo, indirizzo e verifica delle regioni e delle Unità sanitarie locali (sentenze
n. 126 del 1994 e n. 283 del 1991).
6.4. - Le modalità di finanziamento delle aziende ospedaliere prevedono per l'anno 1995 che le
prestazioni, sia di degenza che ambulatoriali da rendere a fronte del finanziamento regionale di quota del
fondo sanitario, "devono formare oggetto di apposito piano annuale preventivo che, tenuto conto della
tariffazione, ne stabilisca quantità presunte e tipologia in relazione alle necessità che più
convenientemente possono essere soddisfatte nella sede pubblica" (art. 6, comma 5, della legge 23
dicembre 1994, n. 724, sostitutivo del comma 7, dell'art. 4 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502). Tale
metodo trova completamento in un meccanismo di verifica a consuntivo e valutazione degli scostamenti,
tale da influire sulla misura di finanziamento nell'anno successivo, in una previsione di un triennio
1996-98 transitorio, al termine del quale dovrà essere esclusivo il sistema di remunerazione a prestazione
degli erogatori pubblici e privati (art. 4, comma 7-ter, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, sostituito
dall'art. 6, comma 5, della legge n. 724 del 1994). In tale maniera si rende graduale il passaggio verso un
nuovo sistema attuandosi una ragionevolezza della previsione secondo i principi affermati dalla sentenza
n. 355 del 1993. Di conseguenza i poteri della regione, sotto i profili innanzi considerati (diverso
dovendo essere il discorso in ordine alla responsabilità dei disavanzi) non vengono alterati con le norme
impugnate, mentre sono rafforzati la tutela e i diritti dell'utente-assistito, con una scelta del legislatore
nazionale non irragionevole, perché tende al potenziamento dei diritti dell'assistito stesso (destinatario
del servizio e soggetto che costituisce la ragione stessa dell'esistenza del servizio), ad una sostanziale
garanzia della eguaglianza delle prestazioni in tutte le regioni attraverso il rafforzamento della facoltà di
scelta e di determinazione degli standards minimi, alla concorrenza tra soggetti erogatori delle
prestazioni con miglioramento dei livelli di efficienza complessivi. Nel contempo non vi è affatto un
allargamento, nella fase transitoria, degli enti erogatori, in ordine ai quali continua la facoltà di scelta del
cittadino, anche se questa viene rafforzata per accentuare il regime di competizione, cui devono essere
sottoposte anche le strutture pubbliche, in una logica applicazione della qualificazione aziendale già
attribuita. Richiamando le linee fondamentali del nuovo assetto del settore della sanità innanzi esposte in
ordine alle serie di responsabilità a vari livelli e ai limiti degli interventi finanziari dello Stato, deve
essere sottolineato il collegamento tra responsabilità e spesa, in conseguenza delle scelte effettuate da
ciascun ente, ed autonomia dei vari soggetti ed organi correlata alle disponibilità finanziarie. Infatti,
come ha avuto occasione di sottolineare questa Corte (sentenza n. 356 del 1992), in presenza di
limitatezza delle risorse e riduzione delle disponibilità finanziarie accompagnata da esigenze di
risanamento del bilancio nazionale, "non è pensabile di poter spendere senza limite, avendo riguardo
soltanto ai bisogni quale ne sia la gravità e l'urgenza; è viceversa la spesa a dover essere commisurata
alle effettive disponibilità finanziarie, le quali condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni
sanitarie, da determinarsi previa valutazione delle priorità e compatibilità e tenuto ovviamente conto
delle fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute, certamente non compromesse con
le misure ora in esame".
Inoltre si può aggiungere l'ulteriore considerazione che la disponibilità finanziaria costituisce limite
alla autonomia, con duplice funzione di protezione dei vari soggetti e con carattere di reciprocità, cioè
nel senso che gli enti di autonomia debbono provvedere con risorse proprie in presenza di maggiori spese
dipendenti da proprie scelte, giustificabili da esigenze locali. Così lo Stato, una volta trasferiti o
determinati i mezzi finanziari di cui vi è disponibilità, può rifiutare di addossarsi gli ulteriori disavanzi
per spese estranee alle proprie scelte o dipendenti da determinazioni degli enti gestori, ma non può
addossare al bilancio regionale oneri relativi alla spesa sanitaria che derivano da decisioni non imputabili
alle regioni stesse (sentenza n. 452 del 1989). In altri termini ciascun soggetto resta tenuto per i disavanzi
di gestione conseguenti alle scelte operate nell'ambito della propria autonomia fissata anche dalle
disponibilità finanziarie, sulla base di proprie determinazioni, specie se eccedenti dai predetti limiti, ma
non può pretendere di addossare i conseguenti disavanzi, derivanti in via esclusiva o in modo
determinante da scelte proprie, su altri soggetti. Pertanto è evidente che una norma, che impone alle
regioni di provvedere al ripiano dei disavanzi di gestione anche in relazione a scelte legislative dello
Stato (come l'art. 10, comma 1, della legge n. 724 del 1994), viola l'autonomia finanziaria, di bilancio e
di spesa delle regioni, operando un condizionamento della medesima finanza regionale, ed urta contro il
principio del parallelismo tra responsabilità di disciplina e di controllo e responsabilità finanziaria,
affermato dalla sentenza n. 355 del 1993 di questa Corte. L'esclusione entro gli anzidetti limiti della
responsabilità della regione non porta necessariamente ad escludere in linea di principio la eventuale
responsabilità degli amministratori delle aziende per le violazioni dei loro doveri in materia di spesa e di
bilancio. Alla stregua delle predette considerazioni risulta la fondatezza della questione concernente l'art.
10, comma 1, limitatamente alla parte che impone alle regioni di provvedere al ripiano degli eventuali
disavanzi di gestione nel settore sanitario anche in relazione a scelte (esclusive o determinanti) dello
Stato con violazione dell'autonomia finanziaria regionale, e l'infondatezza degli anzidetti altri profili di
gravame.
7. - Un discorso separato deve essere fatto per i motivi di ricorso relativi all' art. 39 della legge n. 724
del 1994, proposti solamente dalla Regione Emilia-Romagna (profili di violazione degli artt. 3, 97 e 117
della Costituzione e dei principi fondamentali dello Stato di diritto).
Innanzitutto deve escludersi che la riapertura e l'estensione dei termini (riferiti all'epoca dell'abuso
commesso) del condono edilizio (peraltro con ulteriori limiti e presupposti riduttivi) il cui carattere
essenziale nella fattispecie è quello di norma del tutto eccezionale in relazione ad esigenze di contestuale
intervento sulla disciplina concessoria e a contingenti e straordinarie ragioni finanziarie e di recupero
della base impositiva dei fabbricati, vanifichi di per sé l'azione di controllo e di repressione delle
amministrazioni ed in particolare delle più attente. Infatti l'entità del fenomeno di applicazione ed
utilizzazione della norma impugnata nelle varie regioni (con un introito effettivo di quasi tremila miliardi
limitato alla prima fase dei pagamenti), induce a ritenere la diffusione tutt'altro che isolata del fenomeno
dell'abusivismo edilizio e della persistenza delle relative costruzioni, compiute nel periodo successivo al
31 ottobre 1983 (termine di riferimento dell'art. 31, della legge n. 47 del 1985), fino alla nuova data di
riferimento, 31 dicembre 1993. Ciò è avvenuto non solo per il difetto di una attività di polizia locale
specializzata sul controllo del territorio, ma anche in conseguenza della scarsa (o quasi nulla in talune
regioni) incisività e tempestività dell'azione di controllo e di repressione degli enti locali e delle regioni,
che non è valsa ad impedire tempestivamente la suddetta attività abusiva o almeno a impedire il
completamento e a rimuovere i relativi manufatti. Ben diversa sarebbe, invece, la situazione in caso di
altra reiterazione di una norma del genere, soprattutto con ulteriore e persistente spostamento dei termini
temporali di riferimento del commesso abusivismo edilizio. Conseguentemente differenti sarebbero i
risultati della valutazione sul piano della ragionevolezza, venendo meno il carattere contingente e del
tutto eccezionale della norma (con le peculiari caratteristiche della singolarità ed ulteriore irrepetibilità)
in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il profilo della esigenza di repressione dei comportamenti
che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilità in via amministrativa e penale, ma
soprattutto sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l'uomo. La
gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul
piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilità di condono-sanatoria con conseguente
convinzione di impunità, tanto più che l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non
segua la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il semplice pagamento di oblazione non
restaura mai l'ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale. Giova chiarire che dalle predette
considerazioni non deriva una applicazione, in via assoluta, degli anzidetti principi alle varie forme di
composizione agevolata o di condono in altri settori e materie, quando vi sia l'adempimento dell'obbligo
originario violato (ad esempio obbligo di imposte o di contributi, ancorché con speciale sistema
semplificato o facilitato di determinazione dell'ammontare) ed una attenuazione o esclusione delle
misure sanzionatorie per effetto di autodenuncia da parte del soggetto obbligato.
Per gli altri profili ai fini della dimostrazione della infondatezza vale il richiamo alle considerazioni
espresse da questa Corte in occasione della precedente legge n. 47 del 1985, in ordine alla appartenenza
allo Stato della materia del condono-oblazione e alla mancanza di lesione della sfera regionale nella
previsione statale di condono-sanatoria edilizia (sentenza n. 369 del 1988).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma 1, della legge 23 dicembre
1994, n. 724, nella parte in cui impone alle regioni di provvedere con risorse proprie al ripiano degli
eventuali disavanzi di gestione anche in relazione a scelte esclusive o determinanti dello Stato;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge 23
dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata dalla Regione
Lombardia, in riferimento agli artt. 117, 118, 119 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge 23
dicembre 1994, n. 724, sollevata dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della
Costituzione, nonché dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 97, 117, 118 e 119 della
Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, della legge 23
dicembre 1994, n. 724, sollevata dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della
Costituzione, nonché dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 97, 117 e 118 della
Costituzione e dalla Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 17 e 19 dello statuto, 3, 32 e 97 della
Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, della legge 23
dicembre 1994, n. 724, sollevata dalla Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 17 e 19 dello statuto, 3
e 32 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 6, della legge 23
dicembre 1994, n. 724, sollevata dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 32, 97, 117,
118 e 119 della Costituzione, nonché dalla Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 17 e 19 dello
Statuto, 32 e 97 della Costituzione, e dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119
della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 7, della legge 23
dicembre 1994, n. 724, sollevata dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della
Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 della legge 23 dicembre
1994, n. 724, sollevata dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117 della
Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 luglio 1995.
Il Presidente: BALDASSARRE
Il redattore: CHIEPPA
Il cancelliere: DI PAOLA
Depositata in cancelleria il 28 luglio 1995.