Unità didattica VII - La protezione internazionale
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Corso: | Diritto dell'immigrazione - 6/9 CFU - TORINO - 22/23 |
Libro: | Unità didattica VII - La protezione internazionale |
Stampato da: | Utente ospite |
Data: | domenica, 5 gennaio 2025, 21:49 |
Descrizione
Unità didattica VII - La protezione internazionale
Sommario
- VII.1. Dalla Convenzione di Ginevra al sistema europeo di protezione internazionale
- VII.2. Lo status di rifugiato
- VII.3. La protezione sussidiaria
- VIII.4 La condizione giuridica del richiedente asilo, del rifugiato e del titolare di protezione sussidiaria
- APPROFONDIMENTO 1 - L'evoluzione del sistema europeo di asilo
- APPROFONDIMENTO 2 – Omosessualità e protezione internazionale
VII.1. Dalla Convenzione di Ginevra al sistema europeo di protezione internazionale
A seguito del secondo conflitto mondiale e della conseguente necessità di fronteggiare significativi flussi di sfollati, con il crearsi di una situazione emergenziale su scala globale apparve evidente la necessità di dotarsi di un testo convenzionale di più ampio respiro rispetto ai trattati bilaterali regionali a tal scopo fino ad allora adottati. L'intento fu di codificare in modo definitivo la figura del rifugiato e la portata dello status a esso connesso, il che avvenne il 28 luglio del 1951, quando venne firmata a Ginevra la Convenzione sullo statuto dei rifugiati, ratificata dallo Stato Italiano con l. 24 luglio 1954, n. 722.
Inizialmente l'applicazione del testo convenzionale non era assoluta risultando limitata sia nel tempo che nello spazio.
La versione originaria della Convenzione di Ginevra, cit., art. 1, lett. A, co. 2) prevedeva, infatti, una applicazione retroattiva della nozione di rifugiato, facendo riferimento solo a coloro i quali erano fuggiti dal proprio Paese per eventi occorsi prima del 01 gennaio 1951. Tale riserva temporale, che di fatto rendeva inattuabile il disposto della Convenzione per il futuro, fu eliminata con l'entrata in vigore del protocollo di New York relativo allo status di rifugiato del 1967.
Per quanto attiene, invece, alla limitazione territoriale della applicazione della Convenzione, la lett. B) dell'art. 1, co. 2, permetteva agli Stati contraenti di scegliere se riconoscere lo status di rifugiato agli stranieri in fuga da eventi occorsi sul solo territorio europeo ovvero anche in altri Paesi del mondo, ove oggi solo un numero limitatissimo di Stati mantiene la prima opzione.
La Convenzione di Ginevra è il principale strumento di diritto internazionale in materia, ponendosi quale fondamento giuridico delle correlate discipline regionali e nazionali (art. 11 Cost.).
La sua struttura si compone, essenzialmente, di tre gruppi di disposizioni:
la definizione della nozione di rifugiato (art. 1, lett. A, co. 2);
la condizione giuridica e l'insieme dei diritti di cui può godere il rifugiato nel Paese ospite (v. UD VII);
la protezione del rifugiato dal rischio di di refoulement (art. 33) v. UD VIII.1.
Il sistema convenzionale, tuttavia, presenta due rilevanti lacune: da un lato, non è prevista alcuna disciplina di tipo procedurale, dall'altro, in assenza di un organo giudiziario internazionale preposto al controllo dell'applicazione e dell'interpretazione delle norme della Convenzione la loro attuazione nei singoli Stati contraenti risulta estremamente differenziata.
APPROFONDIMENTO 1 - L'evoluzione del sistema europeo di asilo
Al sistema internazionale di protezione dello straniero si affianca con una norma di avanguardia il c.d. asilo costituzionale. Disciplinato dall'art. 10, co. 3 Cost., è stato oggetto di intenso dibattito sin dal momento della sua adozione in sede di Assemblea Costituente. Pur nella condivisa volontà di inserire nel testo costituzionale il diritto d'asilo, la definizione dei criteri utili ai fini del suo riconoscimento fu, infatti, oggetto di accesa diatriba, tra due opzioni principali: ammettere il diritto di asilo solo nei confronti dei cittadini stranieri perseguitati per ragioni politiche poiché combattenti per la libertà e la democrazia nel proprio Paese di origine ovvero individuare quale unico parametro utile a tali fini l'effettiva negazione nel proprio Paese di origine del godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dall'ordinamento costituzionale.
Nel prevalere della seconda alternativa, la cui portata è indubbiamente più ampia, il diritto di asilo costituzionale si configura quale diritto soggettivo perfetto in capo allo straniero di entrare e soggiornare sul Territorio Nazionale, ove non gli sia concesso nel proprio Paese di origine il godimento delle libertà democratiche previste dalla Costituzione Italiana.
L'art. 10, co. 3 Cost. prevede una riserva di legge assoluta, che non pare essersi effettivamente tradotta nella adozione di uno specifico testo normativo. Tuttavia non ne risulta sconfessata per questo l'immediata azionabilità del diritto di asilo ove sia affermata la sussistenza in capo allo straniero, che versi nelle condizioni previste dalla norma costituzionale, di un diritto soggettivo all'ottenimento del diritto d'asilo anche in mancanza di una norma attuativa che ne specifichi le modalità di esercizio, e ciò in virtù del carattere precettivo della norma, da cui discende la sua immediata operatività (Cass. Civ., S.U., 26 maggio 1997, n. 4674).
Ne deriva il superamento dell'assunto secondo il quale la riserva di legge di cui all'art. 10, co. 3 Cost. avrebbe trovato esecuzione nella legge di attuazione della Convezione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato. In tal modo, infatti, la portata del diritto di asilo costituzionale verrebbe ricondotta nei più angusti limiti della definizione di rifugiato. E' evidente che lo straniero al quale sia negato nel proprio Paese di origine il godimento dei diritti e delle libertà garantiti dalla Costituzione italiana non debba necessariamente essere anche vittima di persecuzioni per motivi di razza, religione, opinioni politiche, nazionalità o appartenenza ad un determinato gruppo sociale. La nozione di rifugiato deve, quindi, essere distinta dalla figura dell'asilante costituzionale.
In ogni caso manca ad oggi la determinazione precisa della portata della norma costituzionale. Ferma, infatti, la non coincidenza tra i due istituti sopra menzionati, deve ancora definirsi quali siano i rapporti reciproci e i differenti ambiti di applicazione, anche con riferimento alle altre forme di protezione dello straniero nel tempo introdotte nell'ordinamento italiano. Non è, infatti, mancato chi ha ritenuto l'art. 10, co. 3 Cost. debba essere qualificato alla stregua di una categoria generale all'interno del quale rientrano sia le forme di protezione internazionale di matrice europea, al cui interno è confluito lo status di rifugiato di natura convenzionale, sia le forme di protezione nazionali, in particolare nell'abrogato il permesso di soggiorno per motivi umanitari (d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 5, co. 6).
Più in generale, per quanto, infatti, le discipline internazionali ed europee elaborate nel corso del tempo e che oggi costituiscono un quadro normativo di riferimento, abbiano una applicazione maggiormente incisiva e concreta, non può dimenticarsi che il diritto di asilo costituzionale preesiste alle stesse e si configura quale forma di protezione dello straniero effettiva ed azionabile. Ne consegue che, nell'ipotesi in cui la disciplina di recepimento in materia di protezione internazionale oggi vigente venisse meno, lo straniero presente in Italia non resterebbe privo di tutela, ben potendo azionare il diritto di asilo costituzionale.
VII.2. Lo status di rifugiato
La definizione internazionalmente riconosciuta di rifugiato è prevista dalla Convenzione di Ginevra, cit., art. 1, lett. A), co. 2 ( v. anche Direttiva 2011/95/UE, art. 2, co. 1 lett. d) e d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, co. 1 lett. e)).
I presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato:
- la sussistenza di un fondato timore
- la persecuzione individuale per uno dei motivi previsti
- l’impossibilità o la non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza
- la presenza dello straniero o dell'apolide fuori dal Paese di cittadinanza o di residenza abituale
La fondatezza del timore della persecuzione in caso di rientro nel proprio Paese di origine, consta di due elementi: uno di carattere soggettivo - la paura della persecuzione in capo al richiedente - l’altro di carattere oggettivo - determinazione della fondatezza del timore stesso, la cui valutazione pone non pochi problemi istruttori e probatori. Se da un lato, infatti, l’elemento soggettivo non può prescindere da una generale analisi della personalità del richiedente, l’elemento oggettivo deve necessariamente essere sorretto da riscontri oggettivi esterni, quali le condizioni generali del Paese di origine, utili a suffragare la verosimiglianza del timore espresso dal richiedente.
Circa la persecuzione e l'individuazione dei motivi per cui la stessa viene inflitta, non esiste una definizione normativa puntuale del concetto di persecuzione, né la stessa è stata determinata in modo univoco a livello interpretativo, mutando nel tempo e nello spazio. Al contrario, uno sforzo definitorio si rinviene nella disciplina europea recepita dal legislatore italiano nel d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 7, ove si richiede che gli atti di persecuzione siano, alternativamente,
- sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti fondamentali dell’uomo, o in alternativa,
- l’insieme di diverse misure il cui impatto sul singolo abbia effetti analoghi a una grave forma di violazione dei diritti fondamentali di cui al punto precedente.
Nel primo caso il comportamento persecutorio deve assumere di per sé stesso un livello di gravità tale da comportare una lesione di uno o più diritti dell’uomo, così come tutelati dalle convenzioni internazionali in materia, con particolare attenzione alle disposizioni della CEDU poste a tutela del diritto alla vita (art. 2), della libertà di espressione e di pensiero (art. 9), del divieto di tortura e di trattamenti e punizioni inumani e degradanti (art. 3), del diritto all’unità familiare (art. 8), del principio di legalità (art. 7) ed del divieto di sottoposizione a schiavitù (art. 4).
Nella seconda ipotesi, invece, la persecuzione consta di un insieme di atti che, presi singolarmente non raggiungono un livello di gravità tale da giustificare la concessione della protezione in esame, ma ove intese nel loro complesso sono equiparabili a una grave violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
La disciplina europea, fornisce un elenco, seppur non esaustivo dei singoli atti di persecuzione, trasposto nel d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 7:
a) atti di violenza fisica o psichica, quali, ad esempio, le minacce di mali futuri nei confronti dell'interessato o dei suoi familiari, le violenze domestiche, i matrimoni forzati ovvero il reclutamento di bambini soldati. La normativa annovera esplicitamente tra tali atti anche la violenza sessuale, nel momento in cui la stessa viene utilizzata come strumento di persecuzione, al fine di fornite una tutela maggiore nei confronti di gruppi di persone particolarmente vulnerabili, come le donne.
Per approfondire UNHCR, Violenza sessuale e di genere nei confronti di rifugiati, rimpatriati e sfollati interni. Linee guida per la prevenzione e la risposta.
b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per la loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;
c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;
d)rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria;
Con riferimento alle ultime tre ipotesi elencate giova evidenziare che gli atti descritti rilevano nella misura in cui esplicano un effetto discriminatorio nei confronti del singolo ovvero sono suscettibili di essere considerati sproporzionati. La sproporzione o il carattere discriminatorio delle azioni giudiziarie può essere dedotto dalla lesione del diritto di difesa, anche attraverso il diniego della difesa d'ufficio o del gratuito patrocinio, e del principio dell'equo processo, quale, ad esempio, lo svolgimento del processo avanti ad un giudice non terzo e imparziale. Così la mera previsione di sanzioni penali che mirino a colpire determinati gruppi etnici, religiosi o razziali e la criminalizzazione di determinati stati personali sono stati qualificati quali atti di persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissioni di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all'art. 10, co. 2.
I crimini cui sono riferite tali ipotesi sono i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità ovvero gli atti contrari ai fini ed ai principi delle Nazioni Unite. In particolare, il rifiuto di prestare il servizio di leva può, altresì, integrare un atto di persecuzione.
Sul punto si richiama la recente pronuncia della Corte europea di giustizia emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale da parte dell'autorità giudiziaria tedesca, chiamata a decidere della richiesta di riconoscimento della protezione internazionale invocata da un militare statunitense che si era rifiutato di ritornare in missione in Iraq poiché reputava illegittimo il conflitto e non voleva commettere con il suo operato crimini di guerra (CGUE, 26 febbraio 2015, C-472/13). La Corte nel fornire l'interpretazione dell'art. 9, par. 2, lett e) Direttiva 2004/83/CE (norma oggi rifusa al medesimo articolo della Direttiva 2011/95/UE) ha affermato che il rifiuto di prestare il servizio militare in conflitto deve costituire il solo mezzo che permetta al richiedente di evitare la partecipazione ai crimini di guerra asseriti. Qualora, quindi, costui abbia omesso di ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza, tale circostanza esclude l'invocata protezione internazionale, tranne nel caso in cui egli provi di non avere a disposizione nessuna possibilità di tal genere.
In merito si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione in merito ad un caso di renitenza alle armi da parte di un cittadino ucraino in relazione al conflitto nel Donbass. Nell'ordinanza Cass. Civ. Sez I, n. 30031 del 24 settembre 2019, dopo aver affrontato il concetto di obiezione di coscienza, si sofferma sulla giustificabilità della renitenza alle armi nel caso in cui prestare il servizio militare comporterebbe la commissione di crimini di guerra, anche in termini di alta probabilità, e sulla effettività della obiezione di coscienza che, nel caso di specie, è giustificata solo per motivi religiosi e per gli appartenenti alle religioni registrate in Ucraina ed anche in quel contesto non è effettivamente assicurata in caso di mobilitazione di urgenza per il conflitto. Ne consegue che la renitenza alla leva sarebbe l'unico mezzo per evitare di commettere crimini di guerra, comportamento sanzionato penalmente. Interessante rilevare, come la Corte di Cassazione rilevi la sussistenza di una persecuzione in tali circostanze anche a fronte di una pena detentiva non giudicata come sproporzionata, in ragione della assenza di n percorso alternativo efficace di obiezione di coscienza
f) atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.
Rientrano in tale categoria i casi di bambini soldato, di mutilazioni genitali o di gravi forme di sfruttamento sessuale UNHCR, L'identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referrall.
Ai
fini del riconoscimento dello status di rifugiato gli atti di
persecuzione così definiti rilevano solo nella misura in cui siano
posti in essere per uno dei cinque motivi di cui alla definizione
convenzionale di status di rifugiato, pedissequamente ripresi
dalle normative europee e italiane: razza, religione, nazionalità,
opinioni politiche e appartenenza a un determinato gruppo sociale.
Tale elencazione ha carattere esaustivo, tuttavia, l’interpretazione
estensiva dei singoli motivi ne permette un'applicazione
sufficientemente ampia.
L'ultimo dei motivi di persecuzione appare il più complesso da determinare, ove, in taluni casi, per gruppo sociale si è inteso un insieme di persone molto ampio – ad esempio un genere sessuale – in altri, invero, il gruppo è stato definito sulla base di legami specificamente individuabili, quali i legami di sangue o le relazioni parentali ovvero una determinata patologia (HIV).
L’individuazione del rapporto tra l’atto di persecuzione e la motivazione a esso sottesa è di fondamentale importanza e può essere reale, ovvero la vittima della persecuzione ha realmente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali ovvero appartiene effettivamente ad un determinato gruppo sociale o condivide specifiche opinioni politiche, oppure supposta, nel caso in cui tali caratteristiche non siano veramente possedute dalla vittima ma siano ad essa attribuite dall'agente persecutore.
Circa gli autori della persecuzione, il legislatore europeo ha contribuito a fornire una definizione utile alla loro individuazione ai fini della valutazione delle domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. Sono soggetti responsabili della persecuzione: lo Stato, i partiti, le organizzazioni che controllano, anche solo in parte, il territorio nazionale e soggetti non statuali (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 5). In questo ultimo caso l’azione dei soggetti privati rileva solo qualora lo Stato ovvero le organizzazioni che esercitano un potere effettivo sul territorio nazionale non vogliano o non possano fornire alcuna forma di protezione: si versa nel primo caso ove le autorità statali tollerano o coadiuvano gli atti di persecuzione posti in essere da soggetti terzi, nel secondo caso, invece, ove non dispongono dei mezzi e del potere necessario per fornire protezione al singolo perseguitato.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento ai soggetti che sono chiamati a fornire protezione dagli atti persecutori, a cui il richiedente asilo non può o non vuole rivolgersi a tal fine e, per questo, richiede a un altro Stato il riconoscimento dello status di rifugiato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 6). Detta protezione deve configurarsi in misure che impediscano in modo effettivo la commissione di atti persecutori, tra le quali rientra, altresì, la previsione di un sistema giuridico che permetta di perseguire penalmente i responsabili e che sia accessibile al richiedente.
A titolo esemplificativo, si possono richiamare i casi di violenza di genere che molto spesso si configurano in violenze domestiche o costrizione alle nozze all'interno del nucleo familiare. In tal caso l'atto di persecuzione non è posto in essere direttamente dallo Stato, ma ben potrà essere riconosciuto lo status di rifugiato in tutti quei casi in cui le autorità statali (polizia, servizi sociali, autorità giudiziarie) non siano in grado di fornire protezione efficace alle vittime e manchi un sistema efficace di repressione di tali generi di crimini. Sul punto si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sez. I, n. 6573 del 24 maggio 2019 in tema di matrimoni forzati.
Sino all'entrata in vigore del d.l. 04 ottobre 2014 n. 113, come convertito in legge 1 dicembre 2018 n. 132 - noto come "decreto Salvini" - l'Italia non aveva trasfuso la c.d. clausola di
riallocazione, secondo la quale può negarsi la protezione
internazionale ove sia accertato che il richiedente possa ottenere
protezione all'interno del proprio Paese di origine, trasferendosi in
un'altra zona ove non correrebbe il rischio di subire atti di
persecuzione ovvero un danno grave (internal flight alternative)
(art.
8 Direttiva 2011/95/UE). In precedenza, quindi, ove in capo
al richiedente sussistevano i requisiti per il riconoscimento della
protezione internazionale, questa non poteva essere negata sulla base
del fatto che, in caso di rimpatrio, egli avrebbe potuto trovare rifugio in
un’altra zona del suo Paese di origine (Cass. Civ., Sez. IV, 25
gennaio 2012, n. 2294).
Attualmente il d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25, art. 32, co. 1 b) ter prevede che la domanda di protezione internazionale è rigettata nel caso in cui si possa ritenere che in altra zona del Paese di origine del richiedente, egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi o abbia accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi. A tali fini deve, altresì, verificarsi che egli vi si possa legalmente e senza pericolo recarvisi ed possa ragionevolmente stabilirvisi e la decisione deve tenere conto anche della situazione personale e familiare del richiedente.
Approfondimento - Omosessualità e status di rifugiato
Infine,
è condizione fondamentale che il richiedente asilo si trovi al di
fuori del proprio Paese di cittadinanza o di dimora abituale, non
potendo operare tale forma di protezione fintanto che lo straniero si
trovi sul territorio di tale Paese. La ratio di tale
disposizione ben si comprende se si tiene a mente che al
riconoscimento dello status in oggetto consegue la completa
rottura di qualsiasi rapporto tra il rifugiato e le autorità
statuali del suo Paese di origine, anche per il tramite delle
ambasciate e delle rappresentanze consolari. Non possono, quindi,
accedere a questa forma di protezione gli sfollati interni (Internal
Displaced Person - IDP), cioè coloro i quali, seppur in possesso dei
requisiti utili ai fini del riconoscimento dello status di
rifugiato, non sono riusciti a lasciare il territorio nazionale.
Non presenta, invece, alcuna rilevanza il motivo per cui il richiedente si trova fuori dai confini del proprio Paese di cittadinanza o di dimora abituale. A fronte, infatti, del possesso dei requisiti sopra evidenziati, è meritevole del riconoscimento dello status di rifugiato sia chi ha lasciato il proprio Paese per sfuggire agli atti di persecuzione sia chi, allontanatosi per altri motivi, non può più farvi rientro a causa di avvenimenti verificatisi in patria a seguito della sua partenza o per comportamenti da costui tenuti all’estero, c.d. rifugiati “sur place” (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 4).
Il riconoscimento dello status di rifugiato non è assoluto. La Convenzione di Ginevra del 1951, così come la normativa europea e italiana, prevedono delle cause di esclusione, di cessazione e di revoca.
L’esclusione dallo status di rifugiato è prevista in tre diverse circostanze:
nel caso in cui il richiedente sia già in possesso di una forma di protezione concessa da parte di un organismo o di una istituzione rientrante nel sistema delle Nazioni Unite (Convenzione di Ginevra, cit., art. 1, lett. D; d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 10). Tale clausola di esclusione trova applicazione solo nei confronti di chi sia sottoposto a un programma di protezione posto in esser da un organo o una agenzia dell’ONU, quale, ad esempio dell’UNRWA (United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees in the Near East) in favore dei profughi palestinesi presenti in Libano,Giordania, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza, e non anche di colui al quale è già stata riconosciuta un’altra forma di protezione internazionale, quale quella sussidiaria o temporanea (infra par. VII.3 e 4). In tal caso, infatti, sarà possibile per lo straniero accedere nuovamente alla procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, a fronte, eventualmente delle mutate condizioni interne al proprio Paese di origine, ovvero chiedere la riforma giudiziale della decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale - autorità amministrativa all'uopo competente (v. UD IX);
nel caso in cui il richiedente sia considerato alla stregua di un cittadino dalle autorità del Paese ospite (Convenzione di Ginevra, cit., art. 1 lett. E);
nel caso in cui il richiedente non sia considerato meritevole della forma di protezione invocata (Convenzione di Ginevra, cit., art. 1 F; d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 10, co. 2). Con particolare riferimento a tale ipotesi è escluso dal riconoscimento dello status di rifugiato chi ha commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o contro l'umanità (lett. a), chi si è reso responsabile di atti contrari ai fini e ai principi delle Nazioni Unite (lett. c) e chi, fuori dal territorio nazionale, ha commesso un reato grave, anche con scopi politici (lett. b).Ai fini della determinazione della gravità deve farsi riferimento alla pena edittale prevista dalla legislazione penale italiana per lo specifico fatto di reato, che non deve essere inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci.
L'accertamento di una clausola di esclusione in capo al richiedente, che avviene ex ante la valutazione della richiesta di protezione internazionale, è demandata all'autorità amministrativa competente per l'esame della domanda e, ove comporti altresì l'esclusione dall'ammissione al godimento della protezione internazionale, può comunque portare al riconoscimento della "protezione speciale" in ragione del principio di non refoulement di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, cit. art. 19, co. 1 e 1.1. v. infra VII.4.
La cessazione dello status di rifugiato può avvenire per volontà del rifugiato o per decisione dello Stato ospite (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 9).
Nel primo caso, è l’interessato che ritiene di non aver più bisogno della protezione dello Stato ospite perché reputa di poterne ottenere una di pari grado da parte del suo Paese di cittadinanza o di dimora abituale ovvero perché muta il suo status a seguito dell'acquisto la cittadinanza italiana o quella di una altro Paese (v. UD XIV).
Giova evidenziare che il ritorno nel Paese di origine, se non giustificato da gravi e comprovati motivi, comporta la cessazione dello status di rifugiato.
In tal caso, seppur non vi sia una vera e propria istanza
di rinuncia da parte del rifugiato, la stessa è implicita nel
mutamento delle sue condizioni personali. La
decisione è, invece, presa d’ufficio dalle autorità dello Stato
che offre protezione nel caso in cui sia intervenuto nel Paese di
cittadinanza o di dimora abituale del rifugiato un radicale e stabile
cambiamento delle condizioni interne che avevano in passato
giustificato il riconoscimento della protezione in esame (CGUE,
02 marzo 2010, C-175/08, C176/08, C-178/08 e C-179/08, Salahadin
e altri/Bundesrepublik Deutschland,
§ 86)
Differenti sono, invero, i presupposti che possono condurre le autorità dello Stato ospite a decidere di revocare lo status di rifugiato già concesso, in ragione della presenza di determinate circostanze, previste con elencazione tassativa (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 12):
- qualora si versi in una delle ipotesi che giustificano il diniego dello status di rifugiato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 12 ) ovvero, al momento del riconoscimento sussistevano cause di esclusione non conosciute. Non rileva se la causa di diniego fosse già sussistente all'epoca della valutazione della domanda di protezione e ignorata dalle autorità competenti o che sia sorta in seguito;
- qualora il riconoscimento dello status di rifugiato abbia trovato fondamento in via esclusiva sulla base di fatti rappresentati in modo erroneo o travisati ovvero sull'utilizzo di documentazione falsa.
Sia nel caso di revoca sia nel caso di cessazione, conseguente a una decisione del Paese che offre protezione, dello status di rifugiato la valutazione deve avvenire in modo individuale e l'interessato deve essere informato dell’avvio del procedimento, al fine di permettergli di prenderne parte e di presentare argomentazioni e documentazioni utili alla sua difesa (l. 7 agosto 1990, n. 241, art. 7); occorre tuttavia precisare che l’onere della prova della sussistenza degli elementi sottesi alla decisione di revoca e di cessazione dello status di rifugiato grava in capo allo Stato. La decisione finale può essere impugnata nei termini di cui al d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25, artt. 35 e ss. (v. UD IX).
APPROFONDIMENTO 2. Omosessualità e protezione internazionale
VII.3. La protezione sussidiaria
La nozione di protezione sussidiaria ha una matrice prettamente europea ed è stata introdotta per la prima volta con la c.d. “direttiva qualifiche”, ove viene definita “complementare e supplementare” rispetto allo status di rifugiato (Direttiva 2004/83/CE, considerando 24).
La ragione di tale forma innovativa di protezione si rinviene nell’esigenza di tutelare tutte quelle situazioni che, pur non presentando gli elementi utili ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sono ugualmente meritevoli di una qualche forma di protezione. Ciò non deve indurre a pensare che la protezione sussidiaria si ponga in una posizione subordinata rispetto allo status di rifugiato, ma deve piuttosto essere considerata una forma alternativa di tutela che riguarda situazioni che pur non presentando aspetti di persecuzione individuale evidenziano la sussistenza di un pericolo in capo al richiedente in caso di rientro nel proprio Paese di origine.
Tale distinzione si coglie nella stessa definizione di protezione sussidiaria, prevista al d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 2, co. 1 lett. g), ove si specifica che è ammesso al godimento della protezione sussidiaria lo straniero o l’apolide che non presenta i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato. L’indicazione appare rilevante se si tiene a mente che la richiesta di protezione internazionale è unica e spetta all’autorità nazionale competente determinare, rispetto al singolo caso concreto, quale forma di protezione riconoscere (v. UD VIII).
In tal senso distinta rispetto alla nozione di status di rifugiato la protezione sussidiaria è riconosciuta qualora vi sia il fondato motivo di ritenere che in caso di rientro nel Paese di origine, o di dimora, lo straniero, o l'apolide, andrebbe incontro al rischio effettivo di subire un danno grave e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale Paese.
Non ogni forma di danno può portare al riconoscimento della forma di tutela in esame, ma solo quelle espressamente previste dal d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 14:
a) la condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte;
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante;
c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Con riferimento alla prima ipotesi, occorre precisare che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria non è necessario che la condanna a morte sia già stata inflitta con sentenza passata in giudicato o con atto ad essa equivalente, ma pare sufficiente la prova del rischio effettivo che, una volta tornato nel proprio Paese di origine lo straniero possa essere sottoposto a un procedimento penale all’esito del quale verrà comminata la pena capitale. Non sembra, invece, possa essere riconosciuta la protezione sussidiaria a fronte della mera allegazione del fatto che la normativa del Paese di origine dello straniero preveda la pena di morte tra le sanzioni penali, ove piuttosto è necessario dimostrare che la stessa sarebbe effettivamente applicata nei confronti del richiedente nel corso di un procedimento penale già in corso o che potrebbe iniziare in caso di rientro in patria.
Per quanto attiene all'ipotesi sub b), il danno grave è individuato nel rischio di subire atti di tortura o altre forme di pena o trattamenti inumani e degradanti.
La norma richiamata non fornisce una definizione degli atti vietati che deve, quindi, essere desunta da altri strumenti di diritto internazionale.
Un definizione di atto di tortura è fornita dall'art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti. La portata di tale disposizione appare, tuttavia, limitata, in quanto richiede che l'autore dell'atto vietato agisca per un fine determinato, quale l'ottenimento di informazioni, la punizione per un determinato comportamento ovvero l'intimidazione. Inoltre, il testo convenzionale non prevede una definizione specifica e una distinzione tra le diverse categorie di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Appare, invero, di portata molto più ampia e di più agevole applicazione ai fini dell'ammissione alla protezione sussidiaria la definizione che ne viene fornita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, chiamata ad interpretare il disposto di cui all'art. 3 CEDU. Così è da considerarsi trattamento degradante l'atto che provoca nell'individuo un sentimento di paura e inferiorità per umiliarlo o avvilirlo, ovvero per vincerne la resistenza fisica o morale, mentre integra il più grave trattamento inumano l'atto che provoca forti sofferenze fisiche o morali che generano acuti problemi psichici. Infine, il trattamento inumano diviene tortura qualora sia caratterizzato da una offesa alla persona talmente intensa che causa gravi e crudeli sofferenze (Corte Edu, 18 gennaio 1978, ric. n. 5310/71, Ireland v. United Kingdom, § 167; Corte Edu, 28 luglio 1999, ric. n. 25803/94, Selmouni v. France, § 94-95; Corte Edu, 29 aprile 2002, ric. n. 2347/02, Pretty v. United Kingdom, § 52; Corte Edu, 06 aprile 2000, ric. n. 26772/95, Labita v. Italy, § 119). Tuttavia, la Corte europea, pur tentando uno sforzo definitorio degli atti vietati dall'art. 3 CEDU, afferma che la Convenzione è uno strumento vivente, la cui interpretazione non è fissa nel tempo, ma evolve con l'evolversi della società: pertanto ciò che distingue le diverse condotte non è la loro natura ovvero la loro preventiva classificazione, ma piuttosto la diversa gravità a cui assurgono. Perciò la soglia minima di gravità, al di sotto della quale non vi è violazione dell'art. 3 CEDU è il trattamento degradante, mentre la tortura ricomprende al suo interno l'atto inumano qualora questo sia caratterizzato da un quid pluris di gravità. La determinazione della soglia di gravità raggiunta da una condotta non può in ogni caso essere determinata in astratto poichè deve essere valutata con riferimento al caso concreto tenendo conto delle circostanze in cui la condotta è stata tenuta nonché delle condizioni particolari della vittima, quali il sesso, l'età o le condizioni psicofisiche.
Con riferimento a tale specifica ipotesi di danno grave, occorre evidenziare che la violazione dell'art. 3 CEDU può portare all'ammissione dello straniero al godimento della protezione sussidiaria solo nel caso in cui la stessa non sia posta per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le opinioni politiche del richiedente, poiché in tal caso la medesima violazione deve qualificarsi quale atto di persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
Infine, la terza ipotesi di danno grave, identificato nel rischio di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona in condizione di violenza generalizzata causata da un conflitto armato, rappresenta indubbiamente una clausola aperta che ben si presta a ricomprendere al suo interno un elevato numero di situazioni anche diverse tra loro. Gli elementi salienti della norma sono la sussistenza di una minaccia alla vita e alla persona e la violenza da cui essa deriva.
La minaccia, da intendersi in senso ben più ampio dello specifico pericolo di subire meri atti di brutalità, deve potersi qualificare come grave e individuale, mentre la violenza deve essere indiscriminata, quindi, idonea a colpire qualsiasi persona, indipendentemente dalla posizione personale del singolo, e causata da un conflitto armato interno o internazionale. Sul punto appare chiarificatore l’intervento dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza CGCE, 17 febbraio 2009, C-465/ 2007, Elgafaji v. Staatssecretaris van Justitie, ove si statuisce che la prova soggettiva del rischio non deve essere fornita nel caso in cui si dimostri che il livello di violenza derivante dal conflitto armato in corso è così grave che la mera presenza del singolo sul territorio del Paese lo espone di per sè al rischio di subire tale minaccia. In linea generale, quindi, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria non è richiesta la prova che il richiedente sia oggetto di una minaccia grave e individuale alla propria vita per una ragione riconducibile alle sue peculiari condizioni personali. Per converso, nel caso in cui si provi l'effettiva connotazione individuale di tale minaccia non è richiesta dimostrazione della gravità della violenza del conflitto armato. Occorre, tuttavia, osservare che tale onere probatorio non è certamente stringente come quello che attiene all'individuazione dell’atto di persecuzione di cui allo status di rifugiato.
Con riguardo ai soggetti responsabili del danno grave e ai soggetti chiamati ad offrire protezione (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., artt. 5 e 6), v. supra par. VII.2.
La cessazione della protezione sussidiaria avviene nel momento in cui le condizioni che avevano condotto al suo riconoscimento mutano in modo sostanziale o vengono meno. Come per la cessazione dello status di rifugiato la mutazione delle condizioni deve avere carattere definitivo, la decisione deve essere sempre adottata su base individuale e l'onere della prova grava in capo allo Stato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 15). Anche per la protezione sussidiaria, è prevista la cessazione nel caso in cui lo straniero faccia rientro nel proprio Paese di origine, se non per comprovati e gravi motivi.
Anche per quanto attiene alla revoca della protezione sussidiaria possono richiamarsi le considerazioni già esposte con riferimento alla revoca dello status di rifugiato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 18).
Parziali differenze si ravvisano, invece, nella determinazione delle cause di esclusione che per la protezione sussidiaria risultano in un sistema più rigoroso e rigido (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 16): oltre alle già analizzate ipotesi (v. supra par. VII.2.), è previsto che sia escluso dall'ammissione lo straniero che costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato o per l'ordine e la sicurezza pubblica (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 15, co. 1, lett. d)) o che ha commesso in Italia o all'estero un reato grave (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 15, co. 1, lett. b)). Ne risulta come l'esclusione possa dipendere non solo dalla sussistenza di elementi oggettivi - quali la commissione di reati o atti particolarmente gravi - ma altresì dalla valutazione discrezionale dell'Amministrazione procedente circa la pericolosità dello richiedente.
Anche in questo caso, l'esclusione dal riconoscimento della protezione sussidiaria, non esclude la possibilità che sia concessa la protezione speciale in base al d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 19, co. 1.1 in ragione del principio di non refoulement v. infra UD VIII.1.
VIII.4 La condizione giuridica del richiedente asilo, del rifugiato e del titolare di protezione sussidiaria
Assumono la qualifica di richiedente asilo, lo straniero o l’apolide che hanno manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale, anche prima, quindi, della materiale verbalizzazione della domanda, e nei confronti dei quali non è ancora stata adottata un decisione definitiva in merito (d.lgs. n. 25 del 2008, cit., art. 1).
Le condizioni di accoglienza del richiedente asilo sono attualmente disciplinate dal d.lgs. n. 142 del 2015, cit., con il quale, come esposto in precedenza, è stata recepita la direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti la protezione internazionale – rifusione (v. infra UD IX.3).
La condizione del richiedente asilo ha un carattere di temporaneità poiché destinata a mutare nel breve termine: o attraverso il riconoscimento della protezione internazionale ovvero, in caso di diniego, nell'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale o nel passaggio a una condizione di clandestinità. Per tale ragione è prevista, da un lato, una limitazione all'accesso ad alcune prestazioni, dall'altro, la possibilità di accedere a percorsi di accoglienza temporanea, ove lo straniero sia privo di mezzi di sussistenza.
Il richiedente asilo ha il diritto di permanere sul territorio nazionale in forza di un permesso di soggiorno per “richiesta asilo”, della durata di sei mesi, rinnovabile sino alla decisione della Commissione territoriale e, in caso di diniego, sino alla decisione giudiziale di primo grado (d.lgs. 142 del 2015, cit., art. 4; D.P.R. n. 394 del 1999, cit., art. 11, co. 1 lett a)). Decorsi due mesi dalla presentazione della domanda di protezione internazionale il richiedente asilo può svolgere attività lavorativa in modo regolare (d.lgs. 142 del 2015, cit., art. 22).
A seguito delle modifiche introdotte dal d.l. 113 del 2018, cit., così come convertito in l. 132 del 2018, cit., il permesso di soggiorno per attesa asilo è considerato un documento di identità, ma non era ritenuto titolo idoneo all'iscrizione anagrafica. Ne conseguiva che al richiedente asilo non poteva più richiedere la carta di identità.
Sul punto erano intervenute alcune decisioni dei tribunali di merito che, applicando una lettera costituzionalmente orientata della norma, avevano ritenuto che tale divieto fosse solamente apparente e che, stante la regolarità del soggiorno del richiedente asilo, egli ha diritto all'iscrizione anagrafica al pari degli altri stranieri regolarmente presenti in Italia (tra le prime pronunce Tribunale di Firenze, ordinanza del 18.05.2019; Tribunale di Bologna, ordinanza del 02.05.2019).
Con la sentenza n. 186 del 09 luglio 2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato tale disposizione per violazione del principio di uguaglianza ritenendo tale divieto, altresì, irragionevole rispetto alle finalità che si proponeva il d.l. 113 del 2018, cit., come convertito in legge, individuato nel "dichiarato obiettivo dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica". Secondo la Corte, stanti tali premesse "la norma in esame, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano. E ciò senza che questa esclusione possa ragionevolmente giustificarsi alla luce degli obblighi di registrazione della popolazione residente."
Per quanto attiene alla violazione dell'art. 3 Cost, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il divieto di iscrizione anagrafica per i soli richiedenti asilo creasse una irragionevole disparità di trattamento tra questi ed altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti nel territorio statale, oltre che con i cittadini italiani.
Il recente d.l. 130 del 21 ottobre 2020, n. 130, come convertito in l. 173 del 18 dicembre 2020, ha recepito il dettato costituzionale, eliminando ogni pregresso divieto in tal senso.
A seguito del riconoscimento della protezione internazionale, con conseguente riconoscimento del correlato status (rifugiato o protetto in via sussidiaria), all'interessato è rilasciato un permesso di soggiorno della durata di cinque anni, al termine dei quali, solo con riferimento alla posizione dei soggetti ammessi alla protezione sussidiaria, il rinnovo avverrà previa nuova verifica della permanenza delle condizioni che hanno consentito il riconoscimento della protezione (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 23). Tale circostanza trova giustificazione se si tiene a mente il fatto che nel caso del rifugiato il venir meno delle predette condizioni non comporta la revoca del permesso di soggiorno ma la cessazione dello status (UD VII.3).
Con riferimento alle modalità di accesso alla procedura di ricongiungimento familiare (UD. V), sono previste condizioni speciali per i beneficiari della protezione internazionale, in deroga alle regole ordinarie che si applicano nei confronti di tutti gli cittadini extraeuropei regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale (d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 29 bis, co. 1). Tali previsioni erano inizialmente ad esclusivo godimento dei rifugiati, in seguito sono state estese ai titolari di protezione sussidiaria. Inoltre, viene attenuato l’onere probatorio in capo al beneficiario della protezione internazionale ai fini della dimostrazione del legame familiare tra lo straniero richiedente e il familiare ricongiunto, che può avvenire anche per il tramite di mezzi diversi, non documentali (d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 29 bis, co. 2).
Per quanto attiene ai documenti di identità e di viaggio - dunque alla libera circolazione fuori dai confini nazionali dello Stato ospite - l'unica distinzione che permane tra i soggetti ammessi al godimento delle due forme di protezione internazionale attiene al rilascio del titolo di viaggio, documento equipollente al passaporto, in ossequio ai modelli stabiliti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 24, co. 1). Infatti, ai soli rifugiati è rilasciato dal Governo italiano un titolo di viaggio della durata di 5 anni. La permanenza di tale differenziazione anche a seguito dell'evidenziata equiparazione delle due forme di protezione in esame è giustificata dalla diversità dei presupposti sottesi al loro riconoscimento: il rifugiato è tale perché teme di esser perseguitato dalle autorità del proprio Paese di origine per motivi di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche e appartenenza ad un gruppo sociale, pertanto non può prendere contatti con le autorità consolari e diplomatiche che possono rappresentare i suoi persecutori.
Il medesimo titolo di viaggio è rilasciato ai soggetti ammessi alla protezione sussidiaria, solo nel caso in cui sussistano fondate ragioni che non permettano la richiesta del rilascio del passaporto alle rappresentanze consolari del suo Paese di origine (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 24, co. 2).
Infine, si evidenzia che a seguito della recente recepimento della Direttiva europea 2011/51/UE con il d.lgs. del 13 febbraio 2014 n. 12, anche i titolari della protezione internazionale possono ottenere il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 9)
APPROFONDIMENTO 1 - L'evoluzione del sistema europeo di asilo
I fondamentali tratti distintivi del sistema comune di asilo dell'Unione Europea possono essere così riassunti:
- l'individuazione di definizioni e standard di trattamento comuni;
- la creazione di un corpus di norme procedurali comuni;
- l'individuazione della protezione sussidiaria, quale fattispecie alternativa e diversa rispetto allo status di rifugiato con cui crea il sistema di protezione internazionale.
A partire dal Consiglio europeo di Tampere, tenutosi nel 1999 viene riconosciuta la necessità di creare un sistema comune di asilo e all'uopo venivano individuate le diverse fasi che hanno portato alla determinazione del quadro normativo in materia. L'evoluzione di tale sistema ha visto succedersi diverse fasi tutte tese alla creazione di una disciplina unica in materia.
L'obiettivo
della prima
fase
(1999 - 2005) era principalmente quello di armonizzare le normative
dei singoli stati sia con riferimento alla nozione di rifugiato sia
circa le procedure di riconoscimento della protezione internazionale.
Nel corso di tale fase si concentra la maggior produzione normativa
europea, finalizzata a definire standard minimi comuni a tutti gli
Stati membri. Tra i diversi atti normativi in tema devono
richiamarsi:
Direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all'Unione europea e che non possono fare rientro nel Paese d'origine, recepita nell'ordinamento italiano con il d.lgs. n. 85 del 07 aprile 2003 (v. UD VII.4);
la Direttiva 2003/09/CE sulle condizioni minime di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati, recepita nell'ordinamento italiano con il d.lgs. n. 140 del 30 maggio 2005, abrogato e sostituito dal d.lgs. n. 142 del 18 agosto 2015(v. UD IX);
Direttiva 2004/83/CE sull'attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, introdotta nel nostro ordinamento con d.lgs. n. 251 del 19 novembre 2007, cd "direttiva qualifiche”, la quale non solo statuisce una nozione comune di rifugiato, ma vi affianca la protezione sussidiaria, definendo in tal modo il concetto di protezione internazionale, anche nei suoi contenuto minimi (v. UD VII);
Direttiva 2005/85/CE sulle norme minime applicate nei vari Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, recepito nel nostro ordinamento con il d.lgs. 25 del 25 gennaio 2008, cd "direttiva procedure” (v. UD VIII).
Inoltre, sempre in questa fase viene definito il cd. "sistema Dublino” finalizzato alla determinazione di norme procedurali di coordinamento tra gli Stati membri: il Regolamento (CE) n. 343/2003 sullo stato membro responsabile all'esame di una domanda di asilo ed il Regolamento EURODAC (CE) n. 2725/2000 per il confronto delle impronte digitali e l'efficace applicazione del regolamento Dublino.
La seconda fase, denominata Programma dell'Aja (2004 - 2009), si poneva quale obiettivo il superamento dei soli standard minimi comuni per tendere alla determinazione di disciplina comune completa. A tal fine veniva definito il Sistema Comune Europeo di Asilo (CEAS). Nel corso di tale fase vengono avanzate le proposte di modifica sia al sistema Dublino (COM(2008)820, cd Dublino II) sia alle direttive "qualifiche” e "procedura”.
A conclusione del Programma dell'Aja, nel corso del Consiglio europeo di Bruxelles, tenutosi nel 2009, adottò il Programma pluriennale per lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia (2010 -2014), cd Programma di Stoccolma, terza fase finalizzata alla determinazione di livello equivalente tra gli Stati membri in tema di accoglienza e procedure.
Nell'ottica della ridefinizione di norme “uniche” e non più “comuni” in materia di asilo, le tre principali Direttive - “qualifiche”, “accoglienza” e “procedure” - vengono rifuse in nuovi testi normativi:
- Direttiva 2011/95/UE sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, con la quale viene aggiornata la cd “direttiva qualifiche”, al fine di determinare non più standard minimi comuni ma livelli normativi uniformi tra gli Stati membri, recepita con d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18. Tra le novità introdotte maggiormente significative deve rilevarsi un progressivo avvicinamento nel godimento dei diritti da parte dei titolari della protezione sussidiaria e coloro ai quali è stato riconosciuto lo status di rifugiato, pur rimanendone distinti i presupposti ed i contenuti (v. UD VII);
- Direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale recepita nel nostro ordinamento con d.lgs. n. 142 del 2015, cit.. La rifusione della cd “direttiva procedure” si è resa necessaria a fronte della sussistenza di un quadro normativo frammentato all'interno dei diversi ordinamenti interni, in ragione delle numerose disposizioni facoltative per gli Stati membri previste nella precedente Direttiva. La nuova normativa prevede modifiche alla competenza ed alla composizione delle Commissioni Territoriali, oltre che nuove regole in tema di gestione della domanda di protezione, al fine di assicurare una migliore razionalizzazione e velocizzazione della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, anche in caso di domanda reiterata (v. UD VII);
- Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, rifusione della direttiva “accoglienze”, anch'essa recepita nel d.lgs. n. 142 del 2015, cit. In tema di accoglienza, particolare attenzione è stata destinata alle ipotesi di trattenimento del richiedente asilo che sono state meglio circostanziate ed aumentate (v. UD XV).
E' in questo contesto che viene adottato anche il nuovo Regolamento Dublino Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 giugno 2013, entrato in vigore il 01 gennaio 2014 (cd. Dublino III) (UD IX.3).
Con il recepimento nell'ordinamento italiano delle ultime direttive, pare essere raggiunto l'obiettivo che il Consiglio europeo di Tampere aveva per la prima volta ipotizzato nel 1999: l'adozione di norme uniche in tutti gli Stati UE in materia d'asilo. Tuttavia, gli sforzi da compiere in tale settore da parte degli Stati membri non possono certamente considerarsi conclusi, soprattutto per quanto attiene alla disciplina della gestione dei flussi migratori ed alla possibilità di continuare ad applicare le regolamentazioni “Dublino” in tema di determinazione del Paese competente all'esame della domanda di protezione internazionale.
In considerazione delle pressioni migratorie a partire dal 2014, la Commissione ha pubblicato l'Agenda europea sulla migrazione nel maggio 2015, con la quale si introducevano nuove forme di gestione dell'arrivo di richiedenti asilo.
L'agenda europea sulla migrazione, inoltre, indicava come necessaria una riforma organica delle disciplina in materia di protezione internazionale (qualifiche e direttive) e della determinazione dello stato competente per la valutazione della domanda di asilo (cd Sistema Dublino).
Per la prima parte di riforma sono in corso di elaborazione due regolamenti - che a differenza delle direttive non necessitano di recepimento in atti legislativi da parte dei singoli Stati membri - mentre per quanto attiene al cd Sistema Dublino una versione condivisa di regolamento è stato adottato dalla Commissione LIBE - commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni - del Parlamento, ma non ha trovato approvazione prima delle ultime elezioni europee.
Il 23 settembre 2020 è stato presentato dalla Commissione il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l'asilo. Il Patto consta di un pacchetto di riforme degli atti normativi che regolano attualmente il sistema europeo di asilo con la proposta di adozione di cinque nuovi Regolamenti e atti non vincolanti di raccomandazione, che dovrebbero trovare attuazione nel 2021.
Le proposte riprendono, tra le altre, la già citata riforma del cd Sistema Dublino con la creazione di un nuovo sistema di solidarietà e ripartizione dei migranti tra Stati di natura obbligatoria in caso di forti pressioni migratorie e l'implementazione del sistema di raccolta dati EURODAC per una maggiore condivisione delle informazioni. A ciò si aggiunge una paventata procedura di valutazione pre - ingresso alle frontiere esterne prima dell'accesso alla procedura di protezione ed una apertura alla previsione di ingressi legali per le persone vulnerabili che necessitano di protezione, prevista solo in forma di raccomandazione.
La proposta passerà ora al vaglio del Parlamento e del Consiglio.
Per saperne di più Eurojus.it Il nuovo Patto per l’immigrazione e asilo: scontentare tutti per accontentare tutti
APPROFONDIMENTO 2 – Omosessualità e protezione internazionale
In molti Paesi del mondo i rapporti omosessuali sono considerati alla stregua di un grave tabù sociale e religioso, repressi con atti di violenza, atteggiamenti discriminatori, ostracizzazione dalla comunità ed in alcuni casi perseguiti anche penalmente. In tali condizioni, l'orientamento sessuale di una persona diviene di rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
Sul punto appaiono esaustive due importanti arresti giurisprudenziali.
In data 20 settembre 2012 la Corte di Cassazione, seguendo un orientamento già consolidato tra le Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e i tribunali di merito, ha riconosciuto lo status di rifugiato in capo ad un cittadino senegalese, il quale aveva affermato di non poter far ritorno nel proprio Paese di origine senza correre il rischio di subire gravi forme di persecuzioni in ragione del suo orientamento sessuale sia per le forti limitazioni a livello familiare, tradizionale e sociale sia per la criminalizzazione degli atti omosessuali prevista dal codice penale senegalese puniti con la reclusione sino a cinque anni (Cass. Civ., Sez. VI, 20 settembre 2012, n. 15981/12). La Suprema Corte ha affermato che tale sanzione penale comporta di sé la privazione del diritto fondamentale di vivere liberamente la propria vita sessuale ed affettiva, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, compromettendone in modo significativo la libertà personale. In tale ingerenza la Corte di Cassazione individua una violazione dei diritti fondamentali dell'uomo così come tutelati dalla Costituzione italiana e dalla CEDU.
Ancora più recente è la pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione europea, che con una sentenza del 07.11.2013 ha risposto ad importanti quesiti pregiudiziali circa l'interpretazione degli artt. 9 e 10 della direttiva 2004/83/CE (CGUE, 07 novembre 2013, C-199/12, C-200/12 e C-201/12, Minister voor Immigratie en Asie/X. e Y.) .
In primo luogo, la CGUE ha riconosciuto che, ai fini della valutazione della motivazione della persecuzione, le persone di orientamento omosessuale possono essere qualificate quale “particolare gruppo sociale” (art. 10, co. 1 lett. d)): l'omosessualità, infatti, si configura quale caratteristica fondamentale dell'identità di un individuo, alla quale non può rinunciare, e l'insieme di tali persone è percepito dalla società esterna, proprio in virtù di tale caratteristica, come diverso.
In secondo luogo, la Corte ha evidenziato che la previsione di una pena detentiva a sanzione di tali atti, se effettivamente applicata nella prassi, debba valutarsi alla stregua di una sanzione sproporzionata e discriminatoria, tanto da costituire un atto di persecuzione ai sensi dell'art. 9, co. 2 lett. c) della Direttiva 2004/83/CE.
Le due pronunce esaminate pur evidenziando entrambe come la criminalizzazione dell'omosessualità configuri una grave limitazione del godimento dei diritti fondamentali dell'uomo e nonostante giungano a rilevare in tale situazione la sussistenza di atti di persecuzione e degli elementi utili ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, pongono in essere due diversi ragionamenti giuridici.
Mentre la Corte di Giustizia dell'Unione Europea individua gli atti di persecuzione nella applicazione concreta di una sanzione penale discriminatoria e sproporzionata, quale la previsione di una pena detentiva per la commissione di atti omosessuali, che deve essere applicata in concreto, la Corte di Cassazione apre essere sul punto più aperta e flessibile. Secondo la giurisprudenza italiana, infatti, la sola presenza di tale fattispecie penale può di per sé stessa integrare un atto di persecuzione nei confronti del cittadino di un Paese terzo omosessuale, atteso che in caso di rimpatrio egli sarebbe tenuto a nascondere o, comunque a vivere in modo segreto, il proprio orientamento sessuale e, conseguentemente, la propria vita affettiva.
Sebbene sia agevole, alla luce delle pronunce sopra evidenziate, individuare un profilo persecutorio negli atti di repressione della omosessualità, estremamente difficile appare determinare la credibilità del richiedente asilo in merito all'asserito orientamento sessuale.
L'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, nel tentativo di orientare le autorità amministrative e giudiziarie coinvolte nella valutazione delle richieste di protezione internazionale in tema di persecuzione per motivi di orientamento e/o identità sessuale ha stilato delle Linee Guida in materia di protezione internazionale n. 9, aggiornate nel 2012.
In primo luogo, viene posta l'attenzione sulla terminologia da utilizzarsi con riferimento alla distinzione tra l'orientamento sessuale – quale la capacità di una persona di provare attrazione emotiva, affettiva e sessuale nei confronti di persone dello stesso genere, di genere diverso o di entrambi i generi - ed identità sessuale, ove si intende l'esperienza intima e personale del proprio genere, rispetto al quale può esservi o meno corrispondenza. La percezione del proprio orientamento sessuale così come della propria identità di genere rimane legata alla sfera personale e si manifesta in modo differente e unico in ogni singola persona; ciò che invece appare definibile in modo chiaro è che il proprio orientamento sessuale non è, quasi mai, una scelta predeterminata.
Inoltre, le Linee guida forniscono utili indicazioni circa il comportamento che l'esaminatore deve tenere nel corso della audizione di un richiedente asilo LGBTI, ove si raccomanda di creare un clima di fiducia tra il richiedente e l'esaminatore in un ambiente aperto e rassicurante. Tale raccomandazione si fonda sulla consapevolezza che i richiedenti asilo LGBTI che provengono da Paesi in cui l'omofobia è particolarmente diffusa e sfocia in gravissimi atti di discriminazione e di violenza possano avere, in ragione delle condizioni di vita nel proprio Paese di origine o di provenienza, la tendenza a nascondere la loro omosessualità, tanto da renderli soggetti estremamente vulnerabili.
In un tale contesto è importante che l'esaminatore non esprima alcun giudizio sull'orientamento sessuale, il comportamento sessuale, l'identità di genere o i modelli relazionali del richiedente ed utilizzi un linguaggio appropriato e non offensivo, al fine di evitare, da un lato, che venga meno il clima sereno che deve rassicurare il richiedente nel momento in cui rende la propria audizione personale, dall'altro, che il richiedente, percependo un giudizio negativo, sia restio a raccontare in piena libertà la propria storia
Per quanto attiene all'accertamento dell'orientamento sessuale palesato dal richiedente asilo, le Linee Guida in esame evidenziano come tale operazione verta essenzialmente in merito alla questione della credibilità ed a tali fini vengono individuati degli ambiti che possono essere oggetto di approfondimento:
- L'autoidentificazione come LBGTI. La specifica collocazione di sé stesso in una o più delle predette categorie da parte dello stesso richiedente è certamente da considerarsi quale indice dell'orientamento sessuale, ma la sua definizione deve essere valutata alla luce del contesto sociale e culturale di provenienza: ad esempio, lo stesso richiedente può provare profonda vergogna o aver interiorizzato forme di omofobia, tanto da negare il proprio orientamento o leggerlo attraverso un registro proprio degli eterosessuali.
- L'infanzia è altresì un periodo di vita di particolare rilevanza, considerato soprattutto che “l'attrazione fisica su cui si fonda l'orientamento sessuale che si avrà da adulti può emergere in periodo compreso tra l'infanzia avanzata e la prima adolescenza”, pur non potendosi a priori certamente escludere la manifestazione di sentimenti di attrazione anche in età matura. In merito si rileva come in alcune occasioni, in particolare nel caso in cui il richiedente provenga da un Paese in cui la società sia fortemente e apertamente omofoba, il contesto culturale di provenienza può influire in modo significativo sul modo in cui costui si autoidentifica. Non è infrequente che egli abbia interiorizzato espressioni o comportamenti omofobi, tanto da utilizzarli anche ai fini della propria identificazione. In altri casi, il richiedente può aver addirittura contratto matrimonio con una donna al fine di assecondare le pressioni sociali, culturali e religiose del Paese di provenienza.
- L'accettazione di sé e la consapevolezza del proprio orientamento, sono altresì, degli elementi di significativa rilevanza, ma variano inevitabilmente nei modi e nei tempi diversi in ogni persona.
- Le relazioni familiari sono certamente rilevanti nella narrazione della determinazione dell'orientamento sessuale di un richiedente asilo, e possono, talvolta essere molto conflittuali nel caso in cui tale orientamento venga apertamente rivelato o scoperto.
- Anche i rapporti con la comunità LGBTI del Paese di origine possono essere indice di credibilità, tuttavia, le stesse Linee Guida, evidenziano che molto spesso l'impossibilità di vivere apertamente e liberamente il proprio orientamento sessuale può indurre il richiedente a non frequentare gruppi LGBTI ovvero può comportare il fatto che egli non sia a conoscenza della loro esistenza nel Paese di origine, così come non sappia indicare locali o luoghi di ritrovo in tema.
Dalla disamina di tali indicazioni appare evidente come non sia possibile definire in modo netto e preciso degli elementi che possano dirsi indicatori della sussistenza di uno specifico orientamento sessuale piuttosto che di un altro ovvero che possano assurgere quali segnali utili ai fini della determinazione della credibilità del richiedente asilo.
La testimonianza del richiedente costituisce molto spesso l'unica fonte di prova circa il proprio orientamento sessuale, alla quale, raramente possono affiancarsi prove testimoniali, provenienti dal partner, ovvero prove documentali, quali la partecipazione attiva in associazioni a tutela dei diritti fondamentali dell'uomo.
E' vietata ogni qualsivoglia pretesa di prova “fisica e tangibile” della affermata omosessualità del richiedente. Sul punto di è espressa a chiare lettere la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che, con sentenza del 02.12.2014, ha affermato che l'interpretazione dell'art. 4, par. 3 lett. c) direttiva 2004/83/CE (recepito nell'art. 3 del d.lgs 251/07) recante nome minime in materia di attribuzione della protezione internazionale osta alla sottoposizione del richiedente asilo, nel corso dell'esame da parte delle autorità nazionali competenti in merito al riconoscimento della protezione internazionale, queste accettino quali elementi di prova il compimento di atti omosessuali, la produzione di immagini o video di tali atti ovvero la sua sottoposizione a test per provare la propria omosessualità, poiché ritenuti lesivi della dignità umana (CGUE, A., B., C./Staatsecretaris van Veiligheid en Justitie, C-148/13, C-149/13 e C-150/13, del 2.12.2014).
Allo stesso modo, l'effettuazione di test medici sull'orientamento sessuale altro non sono che gravi forme di lesione della dignità umana e dei diritti fondamentali.