Unità didattica VIII - Le altre forme di protezione dello straniero
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Corso: | Diritto dell'immigrazione - 6/9 CFU - TORINO - 22/23 |
Libro: | Unità didattica VIII - Le altre forme di protezione dello straniero |
Stampato da: | Utente ospite |
Data: | domenica, 5 gennaio 2025, 22:44 |
Descrizione
Unità didattica VIII - Le altre forme di protezione dello straniero
VIII.1 Il principio di non refoulement
Al fine di meglio comprendere sia il sistema di protezione internazionale sia le nuove misure di protezione temporanea è necessario soffermarsi sul principio di non refoulement, ovvero il divieto di respingimento.
Codificato per la prima volta nella Convenzione di Ginevra, cit., art. 33, è il divieto di qualsiasi forma di allontanamento forzato del rifugiato verso un luogo in cui la sua vita o la sua incolumità potrebbero essere messe in pericolo. Il divieto produce i suoi effetti sia con riferimento alle espulsioni e ai respingimenti alla frontiera (v. UD XV), sia rispetto ad ogni forma di estradizione (art. 10 Cost.) o trasferimento informale dello straniero.
Inoltre, sebbene possa sembrare che il dato testuale dell'art. 33 limiti l’ambito di applicazione del divieto al solo straniero che abbia già ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, è pacifico che godano di tale garanzia anche coloro i quali non hanno ancora formalizzato la domanda di protezione ovvero sono in attesa che la stessa venga decisa.
La ratio di tale estensione è di facile comprensione ove si consideri che il riconoscimento dello status di rifugiato da parte delle autorità nazionali competenti non ha natura costitutiva, ma meramente dichiarativa. La finalità della procedura, infatti, è quella di accertare in capo al richiedente la sussistenza dei requisiti che caratterizzano la figura del rifugiato, che, ove esistenti, ovviamente, preesistono alla presentazione della domanda di protezione internazionale e sono tali da giustificare una rafforzata tutela rispetto all'allontanamento dello straniero
L'applicazione del principio di non refoulement non è assoluta. La stessa Convenzione di Ginevra, cit., art.33, co. 2, prevede una deroga eccezionale al divieto di respingimento nel caso in cui il rifugiato o il richiedente asilo rappresenti, sulla base di accertati gravi motivi, un pericolo per la sicurezza dello Stato ovvero lo stesso sia stato condannato, in via definitiva, per un reato di particolare gravità e per tale ragione sia da considerarsi una minaccia per lo Stato.
Appare evidente, quindi, che solo una reale e comprovata esigenza concernente la sicurezza dello Stato può giustificare la mancata osservanza di una così importante garanzia.
Nel corso del tempo il principio di non refoulement, inizialmente codificato solo nella Convenzione di Ginevra del 1951, ha cominciato a essere oggetto di applicazione costante e diffusa tra i membri della comunità internazionale, anche se non firmatari della predetta Convenzione, i quali sono giunti a riconoscerne la portata obbligatoria e vincolante: il divieto di respingimento è così divenuto norma di diritto internazionale consuetudinario.
A ciò deve aggiungersi che il divieto in esame è stato in seguito richiamato ed elaborato in numerosi strumenti internazionali di tutela dei diritti fondamentali che completano il quadro già delineato dalla Convenzione di Ginevra del 1951.
Una esplicita disposizione sul principio di non refoulement è contenuta nella Convenzione ONU contro la tortura, cit., art. 3 che proibisce il trasferimento di una persona in un paese dove vi siano fondati motivi di ritenere che sarebbe in pericolo di subire atti di tortura. La portata di tale disposizione, per quanto di significativa rilevanza attesa l'importanza del testo convenzionale nella quale è contenuta, appare chiaramente di portata limitata, in quanto vincola il divieto di refoulement al solo rischio di subite atti di tortura e non anche altre forme di gravi trattamenti.
Di più ampio respiro pare essere la protezione dal rischio di refoulement fornita in modo indiretto dall'art. 3 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte dal disposto dell’art. 3 CEDU non discende soltanto un divieto diretto per gli Stati contraenti di non sottoporre ad atti di tortura ovvero a trattamenti inumani e degradanti gli individui che ricadono nella loro giurisdizione, ma sorge in capo agli stessi altresì un obbligo di astensione dal porre in essere qualsiasi azione che possa esporre una persona al rischio di violazione di tale diritto fondamentale. Ne deriva per lo Stato ospite un obbligo di protezione indiretta o “par ricochet” che, con riferimento alla materia che ci occupa, si configura nel divieto di espulsione o allontanamento dal Territorio Nazionale dello straniero che nel proprio Paese sarebbe esposto al rischio di essere sottoposto ad atti vietati dall’art. 3 CEDU.
Allo stesso modo, gli artt. 6 e 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (ratificato in Italia con la l. 25 ottobre 1977, n. 881), così come interpretati dal Comitato Diritti Umani, individuano in capo agli Stati firmatari un divieto di estradare, deportare, espellere o rimuovere in altro modo una persona dal loro territorio, verso luoghi in cui vi sia un rischio reale di danno alla vita ovvero di sottoposizione ad atti di tortura ovvero a pene e trattamenti crudeli, disumani e degradanti.
Non ultimo, il principio di non refoulement è sancito anche dalla normativa italiana nel d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 19, co. 1. La portata del presente articolo è stata ampliata dal recente d.l. 113 del 2018, cit., come convertito in l. n. 132 del 2018, cit., con l'inserimento del comma 1.1, ove si affianca al principio classico già analizzato anche il divieto di respingimento ed allontanamento dello straniero verso uno Stato ove potrebbe essere sottoposto ad atti di tortura. Rilevano a tali fini anche le situazioni di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani.
APPROFONDIMENTO 2 - Chahal v. United Kingdom: la protezione indiretta
VIII.2 La protezione umanitaria
Il
permesso di soggiorno per motivi umanitari era disciplinato dal
d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 5, co. 6, che si configurava quale
clausola di chiusura del sistema, ponendo un limite al potere del
Questore di rifiutare il rilascio o il rinnovo di un permesso di
soggiorno nel caso in cui nel caso concreto ricorressero “seri
motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da
obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
Il testo della norma è stato oggetto di diverse modifiche nel corso degli ultimi anni che hanno trasformato in modo significativo la disciplina delle forme di protezione nazionali in favore del cittadino straniero. In particolare, l'inciso sopra riportato è stato abrogato del d.l. 113 del 2018, cit., come convertito in l. 132 del 2018, cit., per poi essere reinserito dal d.l. n. 130 del 2020, cit. convertito in l. 173 del 2020, cit., tuttavia appare necessario analizzarne la portata al fine di meglio comprendere l'attuale sistema vigente.
L'inquadramento giuridico di tale titolo di soggiorno,
così come la delimitazione del suo ambito di applicazione, non erano
di agevole determinazione.
Il rilascio del permesso di soggiorno di cui al d.lgs.
286 del 1998 cit., art. 5, co. 6 poteva avvenire:
- direttamente dal Questore, in base ad una valutazione
totalmente discrezionale dell'autorità amministrativa, ad esempio
all'esito di una procedura di rilascio di un permesso di soggiorno ad
altro titolo decisa in modo negativo ovvero su istanza di parte;
- quale esito della procedura di riconoscimento della
protezione internazionale.
Era poi previsto il rilascio di tale tipo di permesso di soggiorno in specifiche disposizioni del Testo Unico Immigrazione. Tali casi sono tutt'ora disciplinati dal d.lgs. 286 del 1998, cit., ma non hanno più la denominazione di permesso per motivi umanitari (Permesso per grave sfruttamento lavorativo, per violenza domestica e per protezione sociale) ma riportano la dicitura “casi speciali” – v. UD. VIII.4.
La protezione umanitaria si coordinava con il procedimento di riconoscimento della protezione internazionale di cui si è trattato nei paragrafi precedenti, ma non ne era un elemento costitutivo. Ai sensi dell'allora vigente d.lgs. n. 25 del 2008, cit., art. 32, era, infatti, previsto che ove la protezione internazionale fosse negata, poiché in capo al richiedente non fossero riscontrabili gli elementi utili né per il riconoscimento dello status di rifugiato né per l'ammissione alla protezione sussidiaria, la Commissione territoriale, qualora ritenesse sussistenti gravi motivi di carattere umanitario, trasmetteva gli atti al Questore territorialmente competente per valutare l'eventuale rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ex d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 5, co. 6. Ne conseguiva che il rilascio del permesso di soggiorno poteva avvenire all'esito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, quale conseguenza di una decisione di diniego della protezione stessa.
In merito si è chiarito che il conseguimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari era un diritto soggettivo e, come tale, azionabile avanti al Giudice ordinario, nei modi e nei termini di cui al d.lgs. n. 25 del 2008, cit., art. 35, v. UD IX (Cass. Civ., S.U. 19 maggio 2009, n. 11535; Cass. Civ., S.U. 09 settembre 2009, n. 19393).
Ove la la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale avesse deciso di trasmettere gli atti al Questore per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, indicava le circostanza di carattere umanitario che riteneva meritevoli di una forma di protezione temporanea: secondo la citata giurisprudenza in capo al Questore non residuava alcun potere discrezionale di verifica circa la sussistenza di tali condizioni, esaurendosi il medesimo in un mero potere esecutivo. In tali termini, il carattere “eventuale” del rilascio di tale titolo di soggiorno era da ricercarsi nella sussistenza di indici di pericolosità, legati al comportamento tenuto dall'interessato dopo la presentazione della domanda di protezione internazionale o, anche, dopo la decisione della Commissione.
La norma in esame, non tipizzava le fattispecie concrete che potevano beneficiare del rilascio del titolo di soggiorno in esame, ma forniva solo le indicazioni degli ambiti in cui potevano essere individuati motivi della sua concessione:
obblighi previsti dalle Convenzioni internazionali che impongono allo Stato italiano di adottare misure di protezione a garanzia di diritti umani fondamentali
obblighi di protezione imposti allo Stato italiano da norme costituzionali
altre esigenze di carattere umanitario.
Nei primi due casi la copertura normativa alla concessione della protezione umanitaria era da ricercarsi nelle numerose convenzioni internazionali a tutela dei diritti dell'uomo ratificate dall'Italia – tra tutte la CEDU – nonché negli articoli della Costituzione italiana che disciplinano la tutela dei diritti fondamentali. In tale ambito rientrava, ad esempio, la tutela del diritto alla salute, ai sensi dell'art. 32 Cost.
L'utilizzo della disgiuntiva nella norma - “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali” - evidenziava come i “motivi umanitari” non dovessero necessariamente trovare un preciso riscontro solo in disposizioni costituzionali o internazionali, ma ben potevano rispondere all'esigenza di tutela di diritti fondamentali come imposto in termini generali nell'art. 2 Cost.
Tale argomentazione trovava riscontro nelle pronunce della Suprema Corte di Cassazione ove affermava che la fattispecie di cui al d.lgs. 286 del 1998 cit. , art 5, co. 6 permetteva il “riconoscimento da parte delle Commissioni territoriali o del giudice del merito dell'esistenza di situazioni "vulnerabili" non rientranti nelle misure tipiche o perché aventi il carattere della temporaneità o perché vi sia un impedimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, o, infine, perché intrinsecamente diverse nel contenuto rispetto alla protezione internazionale ma caratterizzate da un'esigenza qualificabile come umanitaria (problemi sanitari, madri di minori etc.)." (Sul punto si veda Cass. Civ. Sez. VI, n. 15466 del 07.07.2014; Cass. Civ. Sez. VI, n. 26566 del 27.11.2013).
Da ciò conseguiva che le misure di carattere umanitario ben potevano avere un carattere atipico e residuale da accertarsi caso per caso, al fine di individuare le situazioni c.d. vulnerabili, che potevano avere la natura più varia. Sotto questo profilo è stata riconosciuta la protezione umanitaria, ad esempio, in caso di patologie psichiche, a seguito di gravi violenze subite nel corso del viaggio migratorio in condizione di minore straniero non accompagnato ed anche in caso di situazioni di particolare instabilità e insicurezza riscontrate nel Paese di origine dello straniero.
In tale contesto appare rilevante richiamare la sentenza della Corte di Cassazione n. 4455 del 23 febbraio 2018. Con tale pronuncia la Suprema Corte ha affermato che l'autorità amministrativa e quella giudiziaria potevano riconoscere i gravi motivi umanitari di cui al d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 5, co. 6 anche nel rilevante e significativo percorso di integrazione sociale nel nostro Paese posto in essere dal richiedente asilo. Tuttavia, tale riconoscimento doveva necessariamente essere parametrato all'esame specifico ed attuale della situazione oggettiva e soggettiva del richiedente, anche con riferimento al suo Paese d'origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio di diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale. Tale orientamento è stato confermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 24413 del 25 maggio 2021.
Il quadro giuridico in cui trovava fondamento tale orientamento è quello già richiamato dell'art. 2 Cost. nel quale trova dimora nel nostro ordinamento la tutela della vita priva e familiare accordata dall'art. 8 CEDU, la cui portata è molto ampia e giunge a ricomprendere non solo la tutela dei legami familiari più stretti, ma altresì il diritto di realizzazione ed estrinsecazione della vita del singolo nella comunità.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari aveva una
durata di 2 anni, permetteva lo svolgimento di attività lavorativa e
poteva essere rinnovato, previo parere della Commissione
territoriale, ovvero convertito in un permesso di soggiorno per
motivi familiari o per motivi di lavoro autonomo o subordinato.
Per completezza è opportuno soffermarsi sui meccanismi
di rinnovo dei permessi di soggiorno per motivi umanitari in corso di
validità all'entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, cit., come
convertito dalla l.n. 132 del 2018, cit., a seguito della loro
abrogazione.
Alla scadenza, tali titolo di soggiorno possono essere
convertiti in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro
subordinato o autonomo o per motivi di famiglia oppure potrà esserne
chiesto il rinnovo. In tal caso la valutazione della richiesta è
demandata alla Commissione territoriale che dovrà valutare la
sussistenza in capo allo straniero dei requisiti di cui ai casi di
"protezione speciale" in relazione al dettato del d.lgs. n.
286 del 1998, cit., art. 19 co. 1 e 1.1, di cui si parlerà del
prossimo paragrafo UD VIII.3.
Diverso era, infine, il caso in cui, all'entrata in
vigore del d.l. n. 113 del 2018, cit. la protezione umanitaria fosse già stata riconosciuta, ma il relativo permesso di soggiorno non
ancora emesso dalla Questura: in tal caso era rilasciato un permesso di
soggiorno per "casi speciali" della durata di due anni che
permetteva lo svolgimento di attività lavorativa. Alla scadenza può essere convertito in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro
subordinato o autonomo o per motivi di famiglia oppure può esserne
chiesto il rinnovo nei termini di cui sopra.
Per
quanto attiene ai procedimenti di riconoscimento della protezione
internazionale pendenti - sia in via amministrativa sia in via
giudiziale - al 04 ottobre 2018, data di entrata in vigore del del
d.l. n. 113 del 2018, cit., l’interpretazione che è sembrata sin
da subito prevalente nella dottrina e nella giurisprudenza di merito
– confermata dalle Sezione Unite della Corte di Cassazione n. 29460
del 24 settembre 2019 - era quella che, per effetto del divieto di
retroattività previsto in generale dall’art. 11 delle Preleggi, le nuove norme sui permessi di
soggiorno non potevano applicarsi retroattivamente e dunque che i
procedimenti (amministrativi e giudiziali) in corso dovevano essere
definiti secondo la normativa che era in vigore prima del d.l. 113
del 2018, cit., come convertito in l. n. 132 del 2018, cit.
A ciò consegue che ai giudizi pendenti ed a quelli introdotti con rifermento a domande di protezione internazionale presentate prima del 05.10.2018 – ancora molto numerosi in fase giudiziale - si applicano i criteri che erano previsti dal d.lg. 286 del 1998, art. 5, co. 6, cit. come vigente prima della sua abrogazione nel 2018.
Con l'entrata in vigore del d.l. n. 130 del 2020, cit. convertito in l. 173 del 2020, cit. il legislatore interviene nuovamente sul d.lg. 286 del 1998, art. 5, co. 6, cit. prevedendo che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possano essere adottati sulla base di accordi internazionali, qualora lo straniero non soddisfi più i requisiti previsti “fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Tale modifica appare certamente rilevante, poiché, impone nuovamente alla Amministrazione, al momento della adozione di un provvedimento ablativo del titolo abilitante al soggiorno, la verifica della necessità, nel singolo caso concreto, di tutelare i diritti fondamentali dello straniero derivanti da obblighi costituzionali o internazionali che verrebbero irrimediabilmente compromessi con l'adozione del predetto provvedimento.
Inoltre, tali obblighi rilevano anche ai fini della valutazione della applicazione del principio di non refoulement, come disciplinato nel nostro ordinamento nel d.lgs. 286 del 1998, art. 19, co. 1.1. cit. (UD VIII.1) e che può portare al rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale di cui si parlerà nel prossimo paragrafo.
VIII.3 La protezione speciale
A seguito della abrogazione della protezione umanitaria il legislatore, con il d.l. n. 113 del 2018, cit., convertito in l. n. 132 del 2018, cit., ha ampliato la previsione delle misure di protezione finalizzate alla tutela da un lato di diritti fondamentali dell'uomo, dall'altro, di situazioni di vulnerabilità che verranno approfondite nel prossimo paragrafo.
Tra queste è da annoverare al protezione speciale, poi modificata in modo sostanziale anche dal d.l. n. 130 del 2020, cit. convertito in l. 173 del 2020, cit., disciplinata dal d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 19, co.1 e 1.1.
Il rilascio del permesso di tale permesso di soggiorno può avvenire secondo due modalità previste dal d.lgs. 286 del 1998, cit. art. 19, co. 1.2:
- con richiesta diretta al Questore da parte del cittadino straniero sia nell'ambito di un procedimento di rilascio di un permesso di soggiorno ad altro titolo sia con specifica istanza volta all'ottenimento della protezione speciale. In tale ultimo caso, in ragione della portata sostanziale della norma – che si vedrà tra poco – la domanda può essere avanzata anche da un cittadino straniero che di trova in condizioni di irregolarità sul territorio nazionale. Il rilascio del permesso di soggiorno è subordinato al parere positivo della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che è coinvolta sebbene non vi sia una specifica richiesta di asilo;
quale esito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale. In tal senso è stato, infatti, modificato il d.lgs. 25 del 2008, cit. art. 32, che prevede che, in caso di diniego della protezione internazionale, la Commissione territoriale, qualora ritenga sussistenti i requisiti di cui al d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 19, co. 1 e 1.1. trasmette gli atti al Questore territorialmente competente per il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale.
Come già esposto nel primo paragrafo della presente unità didattica, il d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 19, co. 1 e 1.1. recepisce nel nostro ordinamento il principio di non refoulement, individuando, quindi, in una formula particolarmente ampia, un divieto di espulsione per tutti coloro i quali, in caso di rimpatrio, rischierebbero di essere perseguitati per uno dei motivi ivi elencati ovvero di essere sottoposti ad atti di tortura e atti inumani e degradanti, recependo in pieno il disposto di cui all'art. 3 CEDU.
Inoltre, a seguito dell'intervento del d.l. n. 130 del 2020, cit. convertito in l. 173 del 2020, cit., il divieto di espulsione o respingimento è esteso anche a tutti quei casi in cui l'allontanamento del cittadino straniero comporterebbe una lesione del del suo diritto alla vita privata e familiare. A tali fini, la norma fornisce dei parametri di valutazione quali la natura e l'effettività dei vincoli familiari dell'interessato in Italia, il suo effettivo inserimento sociale e la durata del suo soggiorno, nonché l'esistenza di legami familiari, culturali e sociali con il Paese di origine.
Tale divieto di espulsione non è assoluto, come invece si configura il principio di non refoulement, di cui al d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 19, co. 1 e 1.1. prima parte, ma può essere superato per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica e di protezione della salute.
Il contenuto di questa disposizione richiama in modo evidente ed esplicito il disposto di cui all'art. 8 CEDU ove si prevede la tutela del diritto fondamentale alla vita privata e familiare, nonché l'interpretazione che di questo è stata data nel tempo dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti fondamentali dell'uomo (sul punto la giurisprudenza è consolidata da molti anni, tra le decisioni più rilevanti si veda sent. 8 maggio 1985, Abdulaziz, Cabales e Balkhandali c. Regno Unito; sent. 18 febbraio 1991, Moustaquim c. Belgio; sent. 11 luglio 2000, Ciliz c. Paesi Bassi; sent. 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera).
VIII.4 Le forme di protezione temporanea
In aggiunta a quanto esposto nei precedenti paragrafi giova evidenziare come nell'ordinamento italiano siano previste altre forme di protezione temporanea a tutela di specifiche esigenze o vulnerabilità del cittadino straniero.
Permessi
di soggiorno per gravi eventi e per calamità
Il d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 20, disciplina
l'adozione di misure di carattere temporaneo ed eccezionale per
rilevanti esigenze umanitarie. Tale forma di protezione è azionata
in caso di confitti, disastri naturali o altri eventi gravi
verificatisi in un Paese terzo, a cui consegue un afflusso di massa
di migranti, anche definiti “sfollati”, i quali hanno dovuto
abbandonare o sono stati evacuati dal loro Paese ed il cui rientro in
condizioni di sicurezza appare impossibile in tempi brevi. In
concreto il riconoscimento di tale protezione avviene per il tramite
di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, nel quale
sono indicati i criteri utili ai fini dell'identificazione dei
beneficiari di tale protezione e le sue modalità attuative e, nello
specifico, viene poi rilasciato un permesso di soggiorno per casi
speciali.
Con il d.lgs. 07 aprile 2003 n. 83 è stata recepita la Direttiva 2001/55/CE, con la quale è stata introdotta una forma di protezione analoga, la cui adozione spetta al Consiglio europeo, in caso di afflusso massiccio di sfollati da un Paese terzo a seguito di un evento grave ed eccezionale. Si evidenzia lo sforzo di condividere tra tutti gli Stati membri gli effetti di un afflusso massiccio di migranti, ancorchè territorialmente circoscritto ad una sola zona dei Paesi UE. Nelle intenzioni del legislatore europeo la gestione congiunta e coordinata di tali situazioni dovrebbe alleggerire il peso gravante sui cd “Stati di primo approdo” quali sono i Paesi membri che si affacciano sul Mar Mediterraneo o che hanno una frontiera esterna dell'Unione europea. Tale normativa non era mai stata attivata sino allo scoppio del conflitto ucraino. Con la Decisione di esecuzione 2022/382, adottata all'unanimità, il Consiglio europeo ha riconosciuto, nell'esodo dei cittadini ucraini dal Paese di origine a seguito dell'invasione della Federazione Russa del territorio ucraino, l'esistenza di un afflusso massiccio di sfollati e, conseguentemente, ha ritenuto di attivare la protezione temporanea, invitando gli Stati membri a darne attuazione con i propri strumenti di diritto nazionale. Nel nostro ordinamento tale riferimento è da ricercarsi nel richiamato d.lgs. 83 del 2003, cit. di recepimento della Direttiva europea in materia e nel d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 20, che ha portato alla adozione del DPCM del 28.03.2022 recante le indicazioni pratiche per il riconoscimento di tale protezione temporanea in Italia.
La protezione temporanea si applica:
- ai cittadini ucraini residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022
- ai cittadini di Stati terzi o apolidi che beneficiavano della protezione internazionale o di protezione nazionale equivalente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022
- ai familiari delle persone indicate ai punti 1) e 2): coniuge; partner stabile, qualora la legislazione o la prassi dello Stato membro interessato assimili coppie di fatto e coppie sposate nel quadro della legge sugli stranieri; figli minori (legittimi, naturali o adottivi), non sposati, del richiedente o del coniuge; altri parenti individuati in riferimento al d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 29, co. 1 lett. c) e d), cioè figli maggiorenni a carico totalmente invalidi, genitori a carico o ultrasessantacinquenni, che convivevano in Ucraina e dipendevano totalmente o parzialmente dal richiedente il ricongiungimento in tale periodo.
- ai cittadini di Paesi terzi o apolidi che possono dimostrare che soggiornavano legalmente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022, sulla base di un permesso di soggiorno permanente valido, rilasciato conformemente al diritto ucraino e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio paese o regione di origine.
Si noti che tale protezione - che si concretizza nel rilascio di un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno - di applica solo alle persone che rientrano nelle categorie sopra elencate, se uscite dall'Ucraina dopo il 24 febbraio 2022. Pertanto, un cittadino ucraino già irregolarmente presente in Italia prima di quella data non ha diritto ad accedere a tale forma di protezione. Tuttavia, considerata l'attuale situazione di conflitto nel Paese di origine, ben potrebbe vedersi riconoscere la protezione sussidiaria a seguito della presentazione della domanda di protezione internazionale.
PER APPROFONDIRE - ASGI, LA PROTEZIONE TEMPORANEA per le persone in fuga dall’Ucraina
Il d.l. n. 113 del 2018, cit., convertito in l. n. 132
del 2018, cit. ha previsto una forma “personalizzata” di
protezione temporanea con l'introduzione del nuovo d.lgs. n. 286 del
1998, cit., art. 20 bis che disciplina il permesso di soggiorno per
calamità. Tale titolo di soggiorno è rilasciato allo straniero
presente in Italia, indipendentemente dalla regolarità del suo
soggiorno e del suo ingresso, qualora nel suo Paese di origine o di
provenienza vi sia una contingente ed eccezionale situazione di
calamità tale da non permettere il suo rientro in condizioni di
sicurezza.
Il permesso di soggiorno ha una durata di 6 mesi,
rinnovabili al perdurare delle esigenze di protezione, permette lo
svolgimento di attività lavorativa ed è ammessa la sua conversione
in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o
autonomo.
A differenza del permesso di soggiorno per protezione
temporanea di cui si è detto in precedenza, tale titolo di soggiorno
è rilasciato direttamente dal Questore sulla base della analisi del
singolo caso concreto ed ha natura individuale e non collettiva.
Permesso di soggiorno per gravi condizioni di salute
Nel
caso in cui lo straniero versi in condizioni di salute di eccezionale
gravità non può disporsi il suo allontanamento dal territorio
nazionale, se non per ragioni di sicurezza nazionale (d.lgs. n. 286
del 1998, cit., art. 19, co. 2 lett. d - bis)). In tal caso si mira a
proteggere lo straniero che verte “in
gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie”,
il cui allontanamento determinerebbe un rilevante pregiudizio per la
sua salute. Le condizioni di salute devono essere accertata per il
tramite di documentazione medica rilasciata da una struttura
sanitaria pubblica o da un medico convenzionato.
Il rilascio di tale permesso di soggiorno prescinde dalla pregressa regolarità del soggiorno o dell'ingresso del cittadino straniero sul territorio nazionale atteso che si tratta di una forma di tutela del diritto fondamentale alla salute, come previsto e tutelato dall'art. 32 Cost.
A fronte dell'accertamento di tale condizione di inespellibilità dello straniero, il Questore rilascia un permesso di soggiorno per cure mediche, della durata non superiore ad un anno, rinnovabile la permanere dei problemi di salute descritti e convertibile per motivi di lavoro subordinato o autonomo.
Il medesimo permesso di soggiorno può essere rilasciato su parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale all'esito della procedura di asilo, qualora non vi siano gli elementi per riconoscere altre forme di protezione.
Permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile
Tale titolo di soggiorno può essere rilasciato, ai
sensi del d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 42 bis) dal Ministro
dell'Interno, su segnalazione del Prefetto, allo straniero che compie
un atto in favore di un singolo o della collettività, esponendo ad
un concreto pericolo la propria vita. L'elencazione delle finalità
meritevoli di riconoscimento sono rinvenibili in via tassativa alla
l. n. 13 del 2 gennaio 1958, art. 3.
Il permesso è rilasciato, previa verifica che lo
straniero non sia un pericolo per la sicurezza e l'ordine pubblico,
per un periodo di 2 anni, permette di svolgere attività lavorativa e
può essere convertito in un permesso di soggiorno per motivi di
lavoro subordinato o autonomo.
Permesso per grave sfruttamento lavorativo
Un permesso di soggiorno denominato "casi speciali"
è rilasciato allo straniero vittima di grave sfruttamento lavorativo
in favore dello straniero che abbia denunciato i propri sfruttatori
ed abbia cooperato nel procedimento penale instauratosi (d.lgs. n.
286 del 1998, cit., art. 22, co. 12 quater). Tale permesso ha la
durata di sei mesi, rinnovabile secondo le necessità di giustizia,
permette l'attività lavorativa e può essere convertito in un
permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Protezione sociale e vittime di violenza domestica.
Il medesimo titolo di soggiorno è rilasciato anche nel
caso in cui lo straniero sia vittima di violenza o di grave
sfruttamento o di violenza domestica (d.lgs. n. 286 del 1998, cit.,
artt. 18 e 18 bis), per la cui trattazione si rimanda alla UD XI.3.
Dette misure di protezione sociale si sono rivelate uno strumento
molto utile nella lotta alla tratta degli esseri umani ed allo
sfruttamento della prostituzione.
In entrambi i casi il permesso è rilasciato dalla
Questura in via autonoma - e non quale esito della procedura di
riconoscimento della protezione internazionale - previo parere della
Procura della Repubblica e riporta la dicitura “casi speciali”.
Approfondimento 1 - Chahal v. United Kingdom: la protezione indiretta
Ai fini di una migliore comprensione di come il principio di non refoulement sia stato elaborato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo appare utile la sentenza Chahal c. Regno Unito, ove tale principio viene elaborato per la prima volta in modo definitivo e articolato (Corte Edu, 15.11.1996, 22414/93, Chahal v. United Kingdom).
Il caso in esame prende le mosse dal ricorso presentato dal sig. Chahal, cittadino indiano, irregolarmente residente nel Regno Unito, la cui domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, fondata sul timore di persecuzioni per il suo attivismo politico in favore della liberazione del Punjab, era stata rigettata dalle autorità britanniche competenti e, pertanto, si trovava esposto al rischio di essere allontanato coattivamente dal territorio britannico. Sebbene all’esito del procedimento, la Corte europea dei diritti dell’uomo non abbia individuato, nel comportamento tenuto dalle autorità statali inglesi, una violazione dell’art. 3 CEDU, appare interessante soffermarsi sui principi interpretativi richiamati in sentenza.
I Giudici di Strasburgo, dopo aver ribadito la piena libertà degli Stati di determinare le modalità di controllo delle proprie frontiere così come le condizioni di ingresso e soggiorno degli stranieri, riconoscono in capo agli Stati la responsabilità in caso di allontanamento di un cittadino straniero “where substantial grounds have been shown for believing that the person in question, if expelled, would face a real risk of being subjected to treatment contrary to Article 3 (art. 3) in the receiving country” (cfr § 74).
In aggiunta a ciò, giova ricordare che ai sensi dell’art. 15 CEDU il disposto di cui all’art. 3 CEDU non può in nessuna caso essere oggetto di deroga, né in caso di guerra né in caso di pubbliche calamità che minaccino la vita della nazione. Nella richiamata sentenza, la Corte europea riconosce che anche in casi concernenti l’espulsione di cittadini di paesi terzi la portata dell’art. 3 CEDU ha carattere assoluto, non rilevando a tal fine le ragioni imperative di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale sottese alla decisione di allontanamento.