Unità didattica VIII - Le altre forme di protezione dello straniero
Unità didattica VIII - Le altre forme di protezione dello straniero
VIII.1 Il principio di non refoulement
Al fine di meglio comprendere sia il sistema di protezione internazionale sia le nuove misure di protezione temporanea è necessario soffermarsi sul principio di non refoulement, ovvero il divieto di respingimento.
Codificato per la prima volta nella Convenzione di Ginevra, cit., art. 33, è il divieto di qualsiasi forma di allontanamento forzato del rifugiato verso un luogo in cui la sua vita o la sua incolumità potrebbero essere messe in pericolo. Il divieto produce i suoi effetti sia con riferimento alle espulsioni e ai respingimenti alla frontiera (v. UD XV), sia rispetto ad ogni forma di estradizione (art. 10 Cost.) o trasferimento informale dello straniero.
Inoltre, sebbene possa sembrare che il dato testuale dell'art. 33 limiti l’ambito di applicazione del divieto al solo straniero che abbia già ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, è pacifico che godano di tale garanzia anche coloro i quali non hanno ancora formalizzato la domanda di protezione ovvero sono in attesa che la stessa venga decisa.
La ratio di tale estensione è di facile comprensione ove si consideri che il riconoscimento dello status di rifugiato da parte delle autorità nazionali competenti non ha natura costitutiva, ma meramente dichiarativa. La finalità della procedura, infatti, è quella di accertare in capo al richiedente la sussistenza dei requisiti che caratterizzano la figura del rifugiato, che, ove esistenti, ovviamente, preesistono alla presentazione della domanda di protezione internazionale e sono tali da giustificare una rafforzata tutela rispetto all'allontanamento dello straniero
L'applicazione del principio di non refoulement non è assoluta. La stessa Convenzione di Ginevra, cit., art.33, co. 2, prevede una deroga eccezionale al divieto di respingimento nel caso in cui il rifugiato o il richiedente asilo rappresenti, sulla base di accertati gravi motivi, un pericolo per la sicurezza dello Stato ovvero lo stesso sia stato condannato, in via definitiva, per un reato di particolare gravità e per tale ragione sia da considerarsi una minaccia per lo Stato.
Appare evidente, quindi, che solo una reale e comprovata esigenza concernente la sicurezza dello Stato può giustificare la mancata osservanza di una così importante garanzia.
Nel corso del tempo il principio di non refoulement, inizialmente codificato solo nella Convenzione di Ginevra del 1951, ha cominciato a essere oggetto di applicazione costante e diffusa tra i membri della comunità internazionale, anche se non firmatari della predetta Convenzione, i quali sono giunti a riconoscerne la portata obbligatoria e vincolante: il divieto di respingimento è così divenuto norma di diritto internazionale consuetudinario.
A ciò deve aggiungersi che il divieto in esame è stato in seguito richiamato ed elaborato in numerosi strumenti internazionali di tutela dei diritti fondamentali che completano il quadro già delineato dalla Convenzione di Ginevra del 1951.
Una esplicita disposizione sul principio di non refoulement è contenuta nella Convenzione ONU contro la tortura, cit., art. 3 che proibisce il trasferimento di una persona in un paese dove vi siano fondati motivi di ritenere che sarebbe in pericolo di subire atti di tortura. La portata di tale disposizione, per quanto di significativa rilevanza attesa l'importanza del testo convenzionale nella quale è contenuta, appare chiaramente di portata limitata, in quanto vincola il divieto di refoulement al solo rischio di subite atti di tortura e non anche altre forme di gravi trattamenti.
Di più ampio respiro pare essere la protezione dal rischio di refoulement fornita in modo indiretto dall'art. 3 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte dal disposto dell’art. 3 CEDU non discende soltanto un divieto diretto per gli Stati contraenti di non sottoporre ad atti di tortura ovvero a trattamenti inumani e degradanti gli individui che ricadono nella loro giurisdizione, ma sorge in capo agli stessi altresì un obbligo di astensione dal porre in essere qualsiasi azione che possa esporre una persona al rischio di violazione di tale diritto fondamentale. Ne deriva per lo Stato ospite un obbligo di protezione indiretta o “par ricochet” che, con riferimento alla materia che ci occupa, si configura nel divieto di espulsione o allontanamento dal Territorio Nazionale dello straniero che nel proprio Paese sarebbe esposto al rischio di essere sottoposto ad atti vietati dall’art. 3 CEDU.
Allo stesso modo, gli artt. 6 e 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (ratificato in Italia con la l. 25 ottobre 1977, n. 881), così come interpretati dal Comitato Diritti Umani, individuano in capo agli Stati firmatari un divieto di estradare, deportare, espellere o rimuovere in altro modo una persona dal loro territorio, verso luoghi in cui vi sia un rischio reale di danno alla vita ovvero di sottoposizione ad atti di tortura ovvero a pene e trattamenti crudeli, disumani e degradanti.
Non ultimo, il principio di non refoulement è sancito anche dalla normativa italiana nel d.lgs. n. 286 del 1998, cit., art. 19, co. 1. La portata del presente articolo è stata ampliata dal recente d.l. 113 del 2018, cit., come convertito in l. n. 132 del 2018, cit., con l'inserimento del comma 1.1, ove si affianca al principio classico già analizzato anche il divieto di respingimento ed allontanamento dello straniero verso uno Stato ove potrebbe essere sottoposto ad atti di tortura. Rilevano a tali fini anche le situazioni di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani.
APPROFONDIMENTO 2 - Chahal v. United Kingdom: la protezione indiretta