Unità didattica VII - La protezione internazionale
VII.2. Lo status di rifugiato
La definizione internazionalmente riconosciuta di rifugiato è prevista dalla Convenzione di Ginevra, cit., art. 1, lett. A), co. 2 ( v. anche Direttiva 2011/95/UE, art. 2, co. 1 lett. d) e d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, co. 1 lett. e)).
I presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato:
- la sussistenza di un fondato timore
- la persecuzione individuale per uno dei motivi previsti
- l’impossibilità o la non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza
- la presenza dello straniero o dell'apolide fuori dal Paese di cittadinanza o di residenza abituale
La fondatezza del timore della persecuzione in caso di rientro nel proprio Paese di origine, consta di due elementi: uno di carattere soggettivo - la paura della persecuzione in capo al richiedente - l’altro di carattere oggettivo - determinazione della fondatezza del timore stesso, la cui valutazione pone non pochi problemi istruttori e probatori. Se da un lato, infatti, l’elemento soggettivo non può prescindere da una generale analisi della personalità del richiedente, l’elemento oggettivo deve necessariamente essere sorretto da riscontri oggettivi esterni, quali le condizioni generali del Paese di origine, utili a suffragare la verosimiglianza del timore espresso dal richiedente.
Circa la persecuzione e l'individuazione dei motivi per cui la stessa viene inflitta, non esiste una definizione normativa puntuale del concetto di persecuzione, né la stessa è stata determinata in modo univoco a livello interpretativo, mutando nel tempo e nello spazio. Al contrario, uno sforzo definitorio si rinviene nella disciplina europea recepita dal legislatore italiano nel d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 7, ove si richiede che gli atti di persecuzione siano, alternativamente,
- sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti fondamentali dell’uomo, o in alternativa,
- l’insieme di diverse misure il cui impatto sul singolo abbia effetti analoghi a una grave forma di violazione dei diritti fondamentali di cui al punto precedente.
Nel primo caso il comportamento persecutorio deve assumere di per sé stesso un livello di gravità tale da comportare una lesione di uno o più diritti dell’uomo, così come tutelati dalle convenzioni internazionali in materia, con particolare attenzione alle disposizioni della CEDU poste a tutela del diritto alla vita (art. 2), della libertà di espressione e di pensiero (art. 9), del divieto di tortura e di trattamenti e punizioni inumani e degradanti (art. 3), del diritto all’unità familiare (art. 8), del principio di legalità (art. 7) ed del divieto di sottoposizione a schiavitù (art. 4).
Nella seconda ipotesi, invece, la persecuzione consta di un insieme di atti che, presi singolarmente non raggiungono un livello di gravità tale da giustificare la concessione della protezione in esame, ma ove intese nel loro complesso sono equiparabili a una grave violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
La disciplina europea, fornisce un elenco, seppur non esaustivo dei singoli atti di persecuzione, trasposto nel d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 7:
a) atti di violenza fisica o psichica, quali, ad esempio, le minacce di mali futuri nei confronti dell'interessato o dei suoi familiari, le violenze domestiche, i matrimoni forzati ovvero il reclutamento di bambini soldati. La normativa annovera esplicitamente tra tali atti anche la violenza sessuale, nel momento in cui la stessa viene utilizzata come strumento di persecuzione, al fine di fornite una tutela maggiore nei confronti di gruppi di persone particolarmente vulnerabili, come le donne.
Per approfondire UNHCR, Violenza sessuale e di genere nei confronti di rifugiati, rimpatriati e sfollati interni. Linee guida per la prevenzione e la risposta.
b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per la loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;
c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;
d)rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria;
Con riferimento alle ultime tre ipotesi elencate giova evidenziare che gli atti descritti rilevano nella misura in cui esplicano un effetto discriminatorio nei confronti del singolo ovvero sono suscettibili di essere considerati sproporzionati. La sproporzione o il carattere discriminatorio delle azioni giudiziarie può essere dedotto dalla lesione del diritto di difesa, anche attraverso il diniego della difesa d'ufficio o del gratuito patrocinio, e del principio dell'equo processo, quale, ad esempio, lo svolgimento del processo avanti ad un giudice non terzo e imparziale. Così la mera previsione di sanzioni penali che mirino a colpire determinati gruppi etnici, religiosi o razziali e la criminalizzazione di determinati stati personali sono stati qualificati quali atti di persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissioni di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all'art. 10, co. 2.
I crimini cui sono riferite tali ipotesi sono i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità ovvero gli atti contrari ai fini ed ai principi delle Nazioni Unite. In particolare, il rifiuto di prestare il servizio di leva può, altresì, integrare un atto di persecuzione.
Sul punto si richiama la recente pronuncia della Corte europea di giustizia emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale da parte dell'autorità giudiziaria tedesca, chiamata a decidere della richiesta di riconoscimento della protezione internazionale invocata da un militare statunitense che si era rifiutato di ritornare in missione in Iraq poiché reputava illegittimo il conflitto e non voleva commettere con il suo operato crimini di guerra (CGUE, 26 febbraio 2015, C-472/13). La Corte nel fornire l'interpretazione dell'art. 9, par. 2, lett e) Direttiva 2004/83/CE (norma oggi rifusa al medesimo articolo della Direttiva 2011/95/UE) ha affermato che il rifiuto di prestare il servizio militare in conflitto deve costituire il solo mezzo che permetta al richiedente di evitare la partecipazione ai crimini di guerra asseriti. Qualora, quindi, costui abbia omesso di ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza, tale circostanza esclude l'invocata protezione internazionale, tranne nel caso in cui egli provi di non avere a disposizione nessuna possibilità di tal genere.
In merito si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione in merito ad un caso di renitenza alle armi da parte di un cittadino ucraino in relazione al conflitto nel Donbass. Nell'ordinanza Cass. Civ. Sez I, n. 30031 del 24 settembre 2019, dopo aver affrontato il concetto di obiezione di coscienza, si sofferma sulla giustificabilità della renitenza alle armi nel caso in cui prestare il servizio militare comporterebbe la commissione di crimini di guerra, anche in termini di alta probabilità, e sulla effettività della obiezione di coscienza che, nel caso di specie, è giustificata solo per motivi religiosi e per gli appartenenti alle religioni registrate in Ucraina ed anche in quel contesto non è effettivamente assicurata in caso di mobilitazione di urgenza per il conflitto. Ne consegue che la renitenza alla leva sarebbe l'unico mezzo per evitare di commettere crimini di guerra, comportamento sanzionato penalmente. Interessante rilevare, come la Corte di Cassazione rilevi la sussistenza di una persecuzione in tali circostanze anche a fronte di una pena detentiva non giudicata come sproporzionata, in ragione della assenza di n percorso alternativo efficace di obiezione di coscienza
f) atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.
Rientrano in tale categoria i casi di bambini soldato, di mutilazioni genitali o di gravi forme di sfruttamento sessuale UNHCR, L'identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referrall.
Ai
fini del riconoscimento dello status di rifugiato gli atti di
persecuzione così definiti rilevano solo nella misura in cui siano
posti in essere per uno dei cinque motivi di cui alla definizione
convenzionale di status di rifugiato, pedissequamente ripresi
dalle normative europee e italiane: razza, religione, nazionalità,
opinioni politiche e appartenenza a un determinato gruppo sociale.
Tale elencazione ha carattere esaustivo, tuttavia, l’interpretazione
estensiva dei singoli motivi ne permette un'applicazione
sufficientemente ampia.
L'ultimo dei motivi di persecuzione appare il più complesso da determinare, ove, in taluni casi, per gruppo sociale si è inteso un insieme di persone molto ampio – ad esempio un genere sessuale – in altri, invero, il gruppo è stato definito sulla base di legami specificamente individuabili, quali i legami di sangue o le relazioni parentali ovvero una determinata patologia (HIV).
L’individuazione del rapporto tra l’atto di persecuzione e la motivazione a esso sottesa è di fondamentale importanza e può essere reale, ovvero la vittima della persecuzione ha realmente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali ovvero appartiene effettivamente ad un determinato gruppo sociale o condivide specifiche opinioni politiche, oppure supposta, nel caso in cui tali caratteristiche non siano veramente possedute dalla vittima ma siano ad essa attribuite dall'agente persecutore.
Circa gli autori della persecuzione, il legislatore europeo ha contribuito a fornire una definizione utile alla loro individuazione ai fini della valutazione delle domanda di riconoscimento dello status di rifugiato. Sono soggetti responsabili della persecuzione: lo Stato, i partiti, le organizzazioni che controllano, anche solo in parte, il territorio nazionale e soggetti non statuali (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 5). In questo ultimo caso l’azione dei soggetti privati rileva solo qualora lo Stato ovvero le organizzazioni che esercitano un potere effettivo sul territorio nazionale non vogliano o non possano fornire alcuna forma di protezione: si versa nel primo caso ove le autorità statali tollerano o coadiuvano gli atti di persecuzione posti in essere da soggetti terzi, nel secondo caso, invece, ove non dispongono dei mezzi e del potere necessario per fornire protezione al singolo perseguitato.
Le medesime considerazioni valgono con riferimento ai soggetti che sono chiamati a fornire protezione dagli atti persecutori, a cui il richiedente asilo non può o non vuole rivolgersi a tal fine e, per questo, richiede a un altro Stato il riconoscimento dello status di rifugiato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 6). Detta protezione deve configurarsi in misure che impediscano in modo effettivo la commissione di atti persecutori, tra le quali rientra, altresì, la previsione di un sistema giuridico che permetta di perseguire penalmente i responsabili e che sia accessibile al richiedente.
A titolo esemplificativo, si possono richiamare i casi di violenza di genere che molto spesso si configurano in violenze domestiche o costrizione alle nozze all'interno del nucleo familiare. In tal caso l'atto di persecuzione non è posto in essere direttamente dallo Stato, ma ben potrà essere riconosciuto lo status di rifugiato in tutti quei casi in cui le autorità statali (polizia, servizi sociali, autorità giudiziarie) non siano in grado di fornire protezione efficace alle vittime e manchi un sistema efficace di repressione di tali generi di crimini. Sul punto si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sez. I, n. 6573 del 24 maggio 2019 in tema di matrimoni forzati.
Sino all'entrata in vigore del d.l. 04 ottobre 2014 n. 113, come convertito in legge 1 dicembre 2018 n. 132 - noto come "decreto Salvini" - l'Italia non aveva trasfuso la c.d. clausola di
riallocazione, secondo la quale può negarsi la protezione
internazionale ove sia accertato che il richiedente possa ottenere
protezione all'interno del proprio Paese di origine, trasferendosi in
un'altra zona ove non correrebbe il rischio di subire atti di
persecuzione ovvero un danno grave (internal flight alternative)
(art.
8 Direttiva 2011/95/UE). In precedenza, quindi, ove in capo
al richiedente sussistevano i requisiti per il riconoscimento della
protezione internazionale, questa non poteva essere negata sulla base
del fatto che, in caso di rimpatrio, egli avrebbe potuto trovare rifugio in
un’altra zona del suo Paese di origine (Cass. Civ., Sez. IV, 25
gennaio 2012, n. 2294).
Attualmente il d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25, art. 32, co. 1 b) ter prevede che la domanda di protezione internazionale è rigettata nel caso in cui si possa ritenere che in altra zona del Paese di origine del richiedente, egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi o abbia accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi. A tali fini deve, altresì, verificarsi che egli vi si possa legalmente e senza pericolo recarvisi ed possa ragionevolmente stabilirvisi e la decisione deve tenere conto anche della situazione personale e familiare del richiedente.
Approfondimento - Omosessualità e status di rifugiato
Infine,
è condizione fondamentale che il richiedente asilo si trovi al di
fuori del proprio Paese di cittadinanza o di dimora abituale, non
potendo operare tale forma di protezione fintanto che lo straniero si
trovi sul territorio di tale Paese. La ratio di tale
disposizione ben si comprende se si tiene a mente che al
riconoscimento dello status in oggetto consegue la completa
rottura di qualsiasi rapporto tra il rifugiato e le autorità
statuali del suo Paese di origine, anche per il tramite delle
ambasciate e delle rappresentanze consolari. Non possono, quindi,
accedere a questa forma di protezione gli sfollati interni (Internal
Displaced Person - IDP), cioè coloro i quali, seppur in possesso dei
requisiti utili ai fini del riconoscimento dello status di
rifugiato, non sono riusciti a lasciare il territorio nazionale.
Non presenta, invece, alcuna rilevanza il motivo per cui il richiedente si trova fuori dai confini del proprio Paese di cittadinanza o di dimora abituale. A fronte, infatti, del possesso dei requisiti sopra evidenziati, è meritevole del riconoscimento dello status di rifugiato sia chi ha lasciato il proprio Paese per sfuggire agli atti di persecuzione sia chi, allontanatosi per altri motivi, non può più farvi rientro a causa di avvenimenti verificatisi in patria a seguito della sua partenza o per comportamenti da costui tenuti all’estero, c.d. rifugiati “sur place” (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 4).
Il riconoscimento dello status di rifugiato non è assoluto. La Convenzione di Ginevra del 1951, così come la normativa europea e italiana, prevedono delle cause di esclusione, di cessazione e di revoca.
L’esclusione dallo status di rifugiato è prevista in tre diverse circostanze:
nel caso in cui il richiedente sia già in possesso di una forma di protezione concessa da parte di un organismo o di una istituzione rientrante nel sistema delle Nazioni Unite (Convenzione di Ginevra, cit., art. 1, lett. D; d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 10). Tale clausola di esclusione trova applicazione solo nei confronti di chi sia sottoposto a un programma di protezione posto in esser da un organo o una agenzia dell’ONU, quale, ad esempio dell’UNRWA (United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees in the Near East) in favore dei profughi palestinesi presenti in Libano,Giordania, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza, e non anche di colui al quale è già stata riconosciuta un’altra forma di protezione internazionale, quale quella sussidiaria o temporanea (infra par. VII.3 e 4). In tal caso, infatti, sarà possibile per lo straniero accedere nuovamente alla procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, a fronte, eventualmente delle mutate condizioni interne al proprio Paese di origine, ovvero chiedere la riforma giudiziale della decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale - autorità amministrativa all'uopo competente (v. UD IX);
nel caso in cui il richiedente sia considerato alla stregua di un cittadino dalle autorità del Paese ospite (Convenzione di Ginevra, cit., art. 1 lett. E);
nel caso in cui il richiedente non sia considerato meritevole della forma di protezione invocata (Convenzione di Ginevra, cit., art. 1 F; d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 10, co. 2). Con particolare riferimento a tale ipotesi è escluso dal riconoscimento dello status di rifugiato chi ha commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o contro l'umanità (lett. a), chi si è reso responsabile di atti contrari ai fini e ai principi delle Nazioni Unite (lett. c) e chi, fuori dal territorio nazionale, ha commesso un reato grave, anche con scopi politici (lett. b).Ai fini della determinazione della gravità deve farsi riferimento alla pena edittale prevista dalla legislazione penale italiana per lo specifico fatto di reato, che non deve essere inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci.
L'accertamento di una clausola di esclusione in capo al richiedente, che avviene ex ante la valutazione della richiesta di protezione internazionale, è demandata all'autorità amministrativa competente per l'esame della domanda e, ove comporti altresì l'esclusione dall'ammissione al godimento della protezione internazionale, può comunque portare al riconoscimento della "protezione speciale" in ragione del principio di non refoulement di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, cit. art. 19, co. 1 e 1.1. v. infra VII.4.
La cessazione dello status di rifugiato può avvenire per volontà del rifugiato o per decisione dello Stato ospite (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 9).
Nel primo caso, è l’interessato che ritiene di non aver più bisogno della protezione dello Stato ospite perché reputa di poterne ottenere una di pari grado da parte del suo Paese di cittadinanza o di dimora abituale ovvero perché muta il suo status a seguito dell'acquisto la cittadinanza italiana o quella di una altro Paese (v. UD XIV).
Giova evidenziare che il ritorno nel Paese di origine, se non giustificato da gravi e comprovati motivi, comporta la cessazione dello status di rifugiato.
In tal caso, seppur non vi sia una vera e propria istanza
di rinuncia da parte del rifugiato, la stessa è implicita nel
mutamento delle sue condizioni personali. La
decisione è, invece, presa d’ufficio dalle autorità dello Stato
che offre protezione nel caso in cui sia intervenuto nel Paese di
cittadinanza o di dimora abituale del rifugiato un radicale e stabile
cambiamento delle condizioni interne che avevano in passato
giustificato il riconoscimento della protezione in esame (CGUE,
02 marzo 2010, C-175/08, C176/08, C-178/08 e C-179/08, Salahadin
e altri/Bundesrepublik Deutschland,
§ 86)
Differenti sono, invero, i presupposti che possono condurre le autorità dello Stato ospite a decidere di revocare lo status di rifugiato già concesso, in ragione della presenza di determinate circostanze, previste con elencazione tassativa (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 12):
- qualora si versi in una delle ipotesi che giustificano il diniego dello status di rifugiato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 12 ) ovvero, al momento del riconoscimento sussistevano cause di esclusione non conosciute. Non rileva se la causa di diniego fosse già sussistente all'epoca della valutazione della domanda di protezione e ignorata dalle autorità competenti o che sia sorta in seguito;
- qualora il riconoscimento dello status di rifugiato abbia trovato fondamento in via esclusiva sulla base di fatti rappresentati in modo erroneo o travisati ovvero sull'utilizzo di documentazione falsa.
Sia nel caso di revoca sia nel caso di cessazione, conseguente a una decisione del Paese che offre protezione, dello status di rifugiato la valutazione deve avvenire in modo individuale e l'interessato deve essere informato dell’avvio del procedimento, al fine di permettergli di prenderne parte e di presentare argomentazioni e documentazioni utili alla sua difesa (l. 7 agosto 1990, n. 241, art. 7); occorre tuttavia precisare che l’onere della prova della sussistenza degli elementi sottesi alla decisione di revoca e di cessazione dello status di rifugiato grava in capo allo Stato. La decisione finale può essere impugnata nei termini di cui al d.lgs. 28 gennaio 2008 n. 25, artt. 35 e ss. (v. UD IX).
APPROFONDIMENTO 2. Omosessualità e protezione internazionale