Unità didattica VII - La protezione internazionale

Unità didattica VII - La protezione internazionale

VII.3. La protezione sussidiaria

La nozione di protezione sussidiaria ha una matrice prettamente europea ed è stata introdotta per la prima volta con la c.d. “direttiva qualifiche”, ove viene definita “complementare e supplementare” rispetto allo status di rifugiato (Direttiva 2004/83/CE, considerando 24).

La ragione di tale forma innovativa di protezione si rinviene nell’esigenza di tutelare tutte quelle situazioni che, pur non presentando gli elementi utili ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sono ugualmente meritevoli di una qualche forma di protezione. Ciò non deve indurre a pensare che la protezione sussidiaria si ponga in una posizione subordinata rispetto allo status di rifugiato, ma deve piuttosto essere considerata una forma alternativa di tutela che riguarda situazioni che pur non presentando aspetti di persecuzione individuale evidenziano la sussistenza di un pericolo in capo al richiedente in caso di rientro nel proprio Paese di origine.

Tale distinzione si coglie nella stessa definizione di protezione sussidiaria, prevista al d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 2, co. 1 lett. g), ove si specifica che è ammesso al godimento della protezione sussidiaria lo straniero o l’apolide che non presenta i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato. L’indicazione appare rilevante se si tiene a mente che la richiesta di protezione internazionale è unica e spetta all’autorità nazionale competente determinare, rispetto al singolo caso concreto, quale forma di protezione riconoscere (v. UD VIII).

In tal senso distinta rispetto alla nozione di status di rifugiato la protezione sussidiaria è riconosciuta qualora vi sia il fondato motivo di ritenere che in caso di rientro nel Paese di origine, o di dimora, lo straniero, o l'apolide, andrebbe incontro al rischio effettivo di subire un danno grave e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale Paese.

Non ogni forma di danno può portare al riconoscimento della forma di tutela in esame, ma solo quelle espressamente previste dal d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 14:

   a) la condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte;

   b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante;

   c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.


Con riferimento alla prima ipotesi, occorre precisare che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria non è necessario che la condanna a morte sia già stata inflitta con sentenza passata in giudicato o con atto ad essa equivalente, ma pare sufficiente la prova del rischio effettivo che, una volta tornato nel proprio Paese di origine lo straniero possa essere sottoposto a un procedimento penale all’esito del quale verrà comminata la pena capitale. Non sembra, invece, possa essere riconosciuta la protezione sussidiaria a fronte della mera allegazione del fatto che la normativa del Paese di origine dello straniero preveda la pena di morte tra le sanzioni penali, ove piuttosto è necessario dimostrare che la stessa sarebbe effettivamente applicata nei confronti del richiedente nel corso di un procedimento penale già in corso o che potrebbe iniziare in caso di rientro in patria.

Per quanto attiene all'ipotesi sub b), il danno grave è individuato nel rischio di subire atti di tortura o altre forme di pena o trattamenti inumani e degradanti.

La norma richiamata non fornisce una definizione degli atti vietati che deve, quindi, essere desunta da altri strumenti di diritto internazionale.

Un definizione di atto di tortura è fornita dall'art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti. La portata di tale disposizione appare, tuttavia, limitata, in quanto richiede che l'autore dell'atto vietato agisca per un fine determinato, quale l'ottenimento di informazioni, la punizione per un determinato comportamento ovvero l'intimidazione. Inoltre, il testo convenzionale non prevede una definizione specifica e una distinzione tra le diverse categorie di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

Appare, invero, di portata molto più ampia e di più agevole applicazione ai fini dell'ammissione alla protezione sussidiaria la definizione che ne viene fornita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, chiamata ad interpretare il disposto di cui all'art. 3 CEDU. Così è da considerarsi trattamento degradante l'atto che provoca nell'individuo un sentimento di paura e inferiorità per umiliarlo o avvilirlo, ovvero per vincerne la resistenza fisica o morale, mentre integra il più grave trattamento inumano l'atto che provoca forti sofferenze fisiche o morali che generano acuti problemi psichici. Infine, il trattamento inumano diviene tortura qualora sia caratterizzato da una offesa alla persona talmente intensa che causa gravi e crudeli sofferenze (Corte Edu, 18 gennaio 1978, ric. n. 5310/71, Ireland v. United Kingdom, § 167; Corte Edu, 28 luglio 1999, ric. n. 25803/94, Selmouni v. France, § 94-95; Corte Edu, 29 aprile 2002, ric. n. 2347/02, Pretty v. United Kingdom, § 52; Corte Edu, 06 aprile 2000, ric. n. 26772/95, Labita v. Italy, § 119). Tuttavia, la Corte europea, pur tentando uno sforzo definitorio degli atti vietati dall'art. 3 CEDU, afferma che la Convenzione è uno strumento vivente, la cui interpretazione non è fissa nel tempo, ma evolve con l'evolversi della società: pertanto ciò che distingue le diverse condotte non è la loro natura ovvero la loro preventiva classificazione, ma piuttosto la diversa gravità a cui assurgono. Perciò la soglia minima di gravità, al di sotto della quale non vi è violazione dell'art. 3 CEDU è il trattamento degradante, mentre la tortura ricomprende al suo interno l'atto inumano qualora questo sia caratterizzato da un quid pluris di gravità. La determinazione della soglia di gravità raggiunta da una condotta non può in ogni caso essere determinata in astratto poichè deve essere valutata con riferimento al caso concreto tenendo conto delle circostanze in cui la condotta è stata tenuta nonché delle condizioni particolari della vittima, quali il sesso, l'età o le condizioni psicofisiche.

Con riferimento a tale specifica ipotesi di danno grave, occorre evidenziare che la violazione dell'art. 3 CEDU può portare all'ammissione dello straniero al godimento della protezione sussidiaria solo nel caso in cui la stessa non sia posta per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le opinioni politiche del richiedente, poiché in tal caso la medesima violazione deve qualificarsi quale atto di persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.

Infine, la terza ipotesi di danno grave, identificato nel rischio di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona in condizione di violenza generalizzata causata da un conflitto armato, rappresenta indubbiamente una clausola aperta che ben si presta a ricomprendere al suo interno un elevato numero di situazioni anche diverse tra loro. Gli elementi salienti della norma sono la sussistenza di una minaccia alla vita e alla persona e la violenza da cui essa deriva.

La minaccia, da intendersi in senso ben più ampio dello specifico pericolo di subire meri atti di brutalità, deve potersi qualificare come grave e individuale, mentre la violenza deve essere indiscriminata, quindi, idonea a colpire qualsiasi persona, indipendentemente dalla posizione personale del singolo, e causata da un conflitto armato interno o internazionale. Sul punto appare chiarificatore l’intervento dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza CGCE, 17 febbraio 2009, C-465/ 2007, Elgafaji v. Staatssecretaris van Justitie, ove si statuisce che la prova soggettiva del rischio non deve essere fornita nel caso in cui si dimostri che il livello di violenza derivante dal conflitto armato in corso è così grave che la mera presenza del singolo sul territorio del Paese lo espone di per sè al rischio di subire tale minaccia. In linea generale, quindi, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria non è richiesta la prova che il richiedente sia oggetto di una minaccia grave e individuale alla propria vita per una ragione riconducibile alle sue peculiari condizioni personali. Per converso, nel caso in cui si provi l'effettiva connotazione individuale di tale minaccia non è richiesta dimostrazione della gravità della violenza del conflitto armato. Occorre, tuttavia, osservare che tale onere probatorio non è certamente stringente come quello che attiene all'individuazione dell’atto di persecuzione di cui allo status di rifugiato.

Con riguardo ai soggetti responsabili del danno grave e ai soggetti chiamati ad offrire protezione (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., artt. 5 e 6), v. supra par. VII.2.

La cessazione della protezione sussidiaria avviene nel momento in cui le condizioni che avevano condotto al suo riconoscimento mutano in modo sostanziale o vengono meno. Come per la cessazione dello status di rifugiato la mutazione delle condizioni deve avere carattere definitivo, la decisione deve essere sempre adottata su base individuale e l'onere della prova grava in capo allo Stato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 15). Anche per la protezione sussidiaria, è prevista la cessazione  nel caso in cui lo straniero faccia rientro nel proprio Paese di origine, se non per comprovati e gravi motivi.

Anche per quanto attiene alla revoca della protezione sussidiaria possono richiamarsi le considerazioni già esposte con riferimento alla revoca dello status di rifugiato (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 18).

Parziali differenze si ravvisano, invece, nella determinazione delle cause di esclusione che per la protezione sussidiaria risultano in un sistema più rigoroso e rigido (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 16): oltre alle già analizzate ipotesi (v. supra par. VII.2.), è previsto che sia escluso dall'ammissione lo straniero che costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato o per l'ordine e la sicurezza pubblica (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 15, co. 1, lett. d)) o che ha commesso in Italia o all'estero un reato grave (d.lgs. n. 251 del 2007, cit., art. 15, co. 1, lett. b)). Ne risulta come l'esclusione possa dipendere non solo dalla sussistenza di elementi oggettivi - quali la commissione di reati o atti particolarmente gravi - ma altresì dalla valutazione discrezionale dell'Amministrazione procedente circa la pericolosità dello richiedente.

Anche in questo caso, l'esclusione dal riconoscimento della protezione sussidiaria, non esclude la possibilità che sia concessa la protezione speciale in base al d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 19, co. 1.1 in ragione del principio di non refoulement v. infra UD VIII.1.