Unità Didattica XII - Il diritto antidiscriminatorio e la tutela dei cittadini stranieri
XII.1. Una materia composita: fonti internazionali
XII.2. Il diritto antidiscriminatorio nella normativa europea
XII.3. Il principio di non discriminazione nella Costituzione e nel diritto nazionale
XII.4. L'azione civile contro le discriminazioni.
XI.2. Il diritto antidiscriminatorio nella normativa europea
Per quanto attiene alla tutela prevista dal diritto dell'Unione Europea, in prima istanza deve richiamarsi l'art. 21 della Carta dei diritti fondamentale dell'Unione che prevede il divieto di qualsiasi forma di discriminazione, fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale. Il lungo elenco di fattori differenziali riportato è notevolmente ampliato rispetto a quello previsto dalla CEDU e dai suoi Protocolli e, come sempre nella materia in esame, non è da considerarsi esaustivo.
Con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ai sensi dell'art. 6 TUE, la Carta dei diritti fondamentali ha acquisito il medesimo valore giuridico dei Trattati, divenendo, quindi, direttamente vincolante per gli Stati.
L'art. 18 TFUE prevede che nell'ambito di applicazione dei Trattati sia vietata ogni forma di discriminazione basata sulla nazionalità, mentre l'art. 19 TFUE attribuisce al Consiglio la facoltà di adottare i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni.
Gli articoli richiamati sono la base giuridica dei due strumenti normativi maggiormente rilevanti in tema di tutela antidiscriminatoria in favore dei cittadini extraeuropei: la Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica (cd. Direttiva “razza”), recepita con d.lgs. n. 215 del 09 luglio 2003 e la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita con d.lgs. n. 216 del 09 luglio 2003.
Sebbene il campo di applicazione comune dei due testi normativi europei sia quello occupazionale – lavoro autonomo e subordinato, la Direttiva 2000/43/CE estende la propria operatività anche ad altri ambiti, quali la protezione e la sicurezza sociale, l'istruzione, l'accesso e la fornitura di beni e servizi (d.lgs. 215 del 2003, art. 3 cit.).
Attesa la sua applicazione specifica nella materia di interesse e la sua portata particolarmente ampia, ci si soffermerà sulla disamina del contenuto della Direttiva 2000/43/CE e del decreto legislativo di recepimento, tuttavia le considerazioni svolte trovano applicazione anche in relazione secondo testo normativo europeo richiamato.
Al fine di fornire una definizione comune di discriminazione, la Direttiva ne individua quattro diverse forme:
- la discriminazione diretta
- la discriminazione indiretta
- Le molestie
- l'ordine di discriminare
Si ha discriminazione diretta quando una persona, a causa della sua razza o dell'origine etnica, è trattata meno favorevolmente di quanto sia stato o sarebbe stato trattato un altro individuo in una situazione analoga (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.). Al fine di comprendere se il trattamento differenziato sulla base di una delle caratteristiche richiamate sia ragionevole ovvero discriminatorio l'operatore giuridico deve, in primo luogo, individuare un parametro di comparazione – un altro soggetto che opera in una situazione analoga – e stabile se la caratteristica in esame – l'origine etnica o la razza - è elemento essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività o il godimento del diritto in esame. Nel caso in cui la risposta sia affermativa, la ragionevolezza del trattamento differenziato deve essere valutata alla luce dei parametri di legittimità e proporzionalità dell'obiettivo perseguito.
Qualora tali parametri non siano rispettati, il trattamento differenziato dovrà considerarsi discriminatorio.
Si incorre, invece, in una discriminazione indiretta quando una disposizione, un atto, un provvedimento, un comportamento o una prassi all'apparenza neutra comporta una posizione di svantaggio per le persone di una determinata razza o origine etnica rispetto ad altre persone (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.). Anche in questo caso sarà necessario valutare se tale svantaggio non sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima e se gli strumenti utilizzati per conseguirla siano appropriati e necessari.
Tra le condotte discriminatorie rilevanti, la Direttiva europea introduce quella delle molestie, individuabili in tutti quei comportamenti indesiderati adottati per motivi di razza o origine etnica e aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità della persone e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.). La specifica previsione di tale comportamento discriminatorio appare quantomai opportuna poiché permette di contrastare comportamenti che presi singolarmente non potrebbero avere una autonoma rilevanza sanzionabile.
Infine, tra i comportamenti discriminatori viene inserito per la prima volta l'ordine di discriminare, condotta spesso riscontrabile nel reclutamento lavorativo per il tramite delle agenzie di collocamento ove i datori di lavoro richiedono che la mansione offerta non venga assegnata a lavoratori di una specifica origine etnica (d.lgs. 215 del 2003, art. 2 cit.).
APPROFONDIMENTO – La giurisprudenza della Corte di Giustizia.
La Direttiva 2000/43/CE ha introdotto nel nostro ordinamento importanti norme concernenti il ruolo e l'azione degli enti e delle associazioni rappresentative degli interessi diffusi sottesi alle discriminazioni in esame. In particolare, il d.lgs. 215 del 2003, art. 6, cit., istituisce, presso il Ministero delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni. L'iscrizione è subordinata al vaglio non solo della regolarità della costituzione formale dell'ente o della associazione, ma altresì alla verifica dello svolgimento di costante e concreta attività nell'ambito di interesse.
L'inserimento in tale Registro conferisce una legittimazione diretta ad agire in nome e per conto del soggetto discriminato, o anche in via autonoma, a sostegno delle ragioni di costui (d.lgs. 215 del 2003, art. 5, cit).
Inoltre, detti enti e associazioni possono agire per i casi di discriminazione collettiva, quando a fronte della sussistenza di un comportamento, di un atto o di un provvedimento discriminatorio non sia possibile individuare in modo chiaro e specifico le vittime di tale discriminazione (d.lgs. 215 del 2003, art. 5, cit).
Con il medesimo testo normativo di recepimento è stato istituito presso il Ministero delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, l'Ufficio per la promozione e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza e sull'origine etnica – UNAR. L'Ufficio ha il compito di fornire assistenza alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori e di implementare la conoscenza della normativa e degli strumenti di tutela in ambito antidiscriminatorio attraverso studi, ricerche e corsi di formazione (d.lgs. 215 del 2003, art. 6, cit).
Sia il d.lgs. 215 del 2003, cit. e il d.lgs. 216 del 2003, cit. rimandano, ai fini della tutela giurisdizionale contro atti e comportamenti discriminatori, al d.lgs. 286 del 1998, art. 44, cit. che disciplina l'azione civile contro la discriminazione (v. par. 4).
A conclusione della disamina della normativa europea in materia di diritto antidiscriminatorio in favore dei cittadini di Paesi terzi devono ricordarsi le clausole di non discriminazione in favore dei cittadini stranieri in possesso di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e dei titolari della protezione internazionale.
La Direttiva 2003/109/CE del 25 novembre 2003 sullo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, recepita con il d.lgs. n. 3 dell'08 gennaio 2007 prevede il riconoscimento della parità di trattamento con i cittadini europei in diversi ambiti, tra i quali, l'esercizio di attività lavorativa in via autonoma e subordinata, l'istruzione, la formazione professionale, le prestazioni di assistenza sociale, l'accesso a beni e servizi, tra cui l'assegnazione degli alloggi di edilizia agevolata.
Le disposizioni contenute nella Direttiva in tema di parità di trattamento non avevano carattere obbligatorio, residuando, quindi, in capo al singolo Stato membro la facoltà di derogare a tale principio in sede di recepimento con riferimento a specifici settori, tra cui l'accesso ad attività lavorative riservate ai cittadini nazionali e alle prestazioni di assistenza sociale, il godimento delle quali poteva essere limitato ad un nucleo essenziale. L'Italia non ha optato per tale facoltà e deve, quindi, ritenersi vigente un pieno diritto di parità di trattamento in capo ai cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Il principio di parità di trattamento in materia di assistenza sanitaria e sociale è altresì riconosciuto ai titolari di protezione interazionale (d.lgs. n. 18 del 2014, cit.).