Unità Didattica XII - Il diritto antidiscriminatorio e la tutela dei cittadini stranieri
XII.1. Una materia composita: fonti internazionali
XII.2. Il diritto antidiscriminatorio nella normativa europea
XII.3. Il principio di non discriminazione nella Costituzione e nel diritto nazionale
XII.4. L'azione civile contro le discriminazioni.
XI.3. Il principio di non discriminazione nella Costituzione e nel diritto nazionale
L'art. 2 Cost. riconosce il pieno godimento dei diritti inviolabili dell'uomo a tutti gli individui, prescindendo dal possesso dello status civitatis ovvero della regolarità del soggiorno sul territorio nazionale.
Allo stesso modo, anche il principio di uguaglianza previsto dall'art. 3 Cost., trova applicazione in favore di ogni essere umano: nonostante, infatti, sul piano letterale, la sua operatività parrebbe limitata ai soli cittadini italiani, l'interpretazione della Corte Costituzionale ha riconosciuto la sua necessaria applicazione anche in capo ai cittadini stranieri (v. UD. I).
L'art. 3 Cost. riconosce l'uguaglianza di ogni persona avanti alla legge senza distinzione alcuna, stigmatizzando in tal modo il principio di uguaglianza in senso formale. Come è noto, la medesima disposizione costituzionale impone allo Stato di dare applicazione concreta a tale principio, rimuovendo gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di tale obiettivo – principio di uguaglianza sostanziale.
Discende direttamente da tali norme il principio di ragionevolezza che si pone quale criterio guida nel giudizio di legittimità costituzionale e punto di equilibrio tra il riconoscimento astratto della pari titolarità dei diritti e del concreto differenziato godimento degli stessi. Pertanto, la Corte costituzionale riconosce la violazione del principio di uguaglianza quando la previsione legislativa di un trattamento differenziato nell'ambito di godimento di diritti fondamentali non sia giustificata da esigenze di pari rango e supportata da un ragionevole motivo.
Ad esemplificazione del ragionamento sotteso alla applicazione del principio di ragionevolezza si richiama la sentenza della Corte Costituzionale, 28 novembre 2005, n. 432, in tema di legittimità costituzionale della normativa della Regione Lombardia che limitava l'accesso al diritto alla circolazione gratuita sui trasporti pubblici alle persone totalmente invalide residenti nel territorio lombardo cittadine italiane.
Il Giudice di legittimità ha precisato che, oltre ad un nucleo irrinunciabile di diritti dell'uomo che sono inviolabili ed il cui godimento spetta a tutti senza distinzione, vi sono posizioni soggettive esterne a tale nucleo in relazione alle quali il legislatore può prevedere regimi differenziati di trattamento a condizione che vi sia una ragione ad essi sottesa non palesemente irrazionale o arbitraria.
Nel caso in esame, la Corte Costituzionale, pur rilevando come la possibilità di godere del trasporto pubblico gratuito da parte dei disabili non rientri nel nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, ha rilevato la mancanza di una ragionevole correlazione tra il possesso dello status civitatis, quale condizione di ammissione al godimento di tale diritto, ed i requisiti necessari per la sua fruizione, quali l'invalidità totale e la residenza nella Regione Lombardia.
Le prime norme italiane in materia di diritto antidiscriminatorio sono riconducibili a due grandi tematiche: le condotte discriminatorie e antisindacali nel mondo del lavoro e le discriminazioni di genere e la tutela delle pari opportunità.
Nell'ambito della disciplina del diritto del lavoro, lo Statuto dei lavoratori prevede la nullità di qualsiasi atto o patto posto in essere dal datore di lavoro nei confronti di un lavoratore che abbiano un fine discriminatorio per motivi sindacali, poi esteso ai motivi politici, religiosi, razziali, di lingua o di sesso (L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15). Tuttavia, tale disposizione trova applicazione solo nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato e a fronte di un comportamento del datore di lavoro.
Con specifico riferimento alla posizione dei cittadini stranieri, la tutela contro le discriminazioni è garantita dalla disciplina speciale in materia di immigrazione.
Se la parità di trattamento ai lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti è tutelata dal d.lgs n. 286 del 1998 cit., art. 2, anche in forza della Convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata dall'Italia con la legge n. 158 del 10 aprile 1981, il medesimo testo normativo identifica il quadro dei diritti di cui gode lo straniero, che varia a seconda della sua posizione sul territorio nazionale.
In primo luogo, la norma in esame costituisce attuazione del disposto dell'art. 2 Cost. che trova applicazione nei confronti di tutte le persone, indipendentemente dalla regolarità del loro soggiorno, per poi definire una ben più ampia gamma di diritti spettanti, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli stranieri regolarmente residenti in Italia.
Una clausola generale di non discriminazione è prevista dal d.lgs. n. 286 del 1998, art. 43, cit., la cui portata deve essere valuta in congiunzione con la norma citata.
La norma offre una definizione unitaria di discriminazione che ricomprende tutti quei trattamenti differenziati, basati su una elencazione non esaustiva di ragioni, posti in essere sia in modo diretto sia in modo indiretto. Le condotte individuate devono comportare una lesione nel godimento, nel riconoscimento ovvero nel mero esercizio dei diritti fondamentali.
Sebbene la disposizione in esame non preveda una chiara definizione di discriminazione indiretta, le lacune normative ben possono essere colmate dalla disciplina europea in materia, entrata in vigore successivamente al d.lgs. n. 286 del 1998, cit.
Uno degli elementi di forza della disciplina interna è riconosciuto nella individuazione di un elemento oggettivo nella definizione di comportamento discriminatorio, ove rileva l'effetto discriminatorio della condotta posta in essere, piuttosto che l'intento e la volontà dell'agente, circostanza che permette di colpire anche quei comportamenti o atti neutri le cui conseguenze hanno una connotazione discriminatoria.
Il legislatore, dopo aver fornito una definizione generale di trattamento discriminatorio, individua delle condotte specifiche aventi indubbiamente natura discriminatoria (d.lgs. n. 286 del 1998, art. 43, co. 2). La scelta di stigmatizzare determinati comportamenti si fonda sulla volontà di coprire, seppur senza alcuna pretesa di esaustività, gli ambiti in cui più frequentemente si verificano condotte od atti discriminatoti, come l'accesso ai servizi pubblici, l'offerta privata di beni i servizio ovvero l'accesso all'impiego o all'alloggio.